Titolo: Lungo cammino
Autore: Ayhan Geçgin
Editore: Utopia
Pagine: 176
Prezzo: euro 18
«Vivevo a Istanbul, a Güzeltepe, insieme a mia madre. Un mattino sono uscito di casa. Non era ancora giorno. L’aria era fresca, c’era silenzio. Mi sono detto, camminerò senza guardarmi indietro, fino a uscire dalla città, fino a trovare un’ampia pianura, un silenzioso versante di montagna, questa è la mia egira, il mio lungo cammino».
Un volere espresso dalle prime alle ultime righe, quello di Mahmut, il protagonista di “Lungo cammino”, il quarto romanzo dell’autore turco Ayhan Geçgin, il primo tradotto in italiano da Giulia Ansaldo per la casa editrice Utopia. Eppure, strada facendo lui stesso dimentica il suo nome e da lettori ne veniamo a conoscenza solo a metà del libro, quando lo ritroveremo in un letto d’ospedale dopo essere stato picchiato a sangue e la sua storia personale sarà più chiaramente intrecciata con quella del Paese, in particolare con il 2013, l’anno delle proteste di Gezi park.
L’autore e la scrittura
Ayhan Geçgin è nato a Istanbul nel 1970 e ha studiato filosofia ad Ankara. Romanziere e saggista, è una delle voci più autorevoli e potenti della letteratura turca contemporanea. Nel 2020 ha vinto il premio Orhan Kemal, uno dei maggiori riconoscimenti per la narrativa turca. La sua scrittura e, in particolare, questo libro, viene paragonata a quella dei più grandi autori esistenzialisti, a “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati, a “La caduta” di Albert Camus. A differenza del primo, tuttavia, il protagonista di “Lungo Cammino” è stanco di aspettare, di attendere un cambiamento nella sua vita e nel mondo che lo circonda. Si sente intrappolato nella quotidianità della vita di tutti i giorni, in una città, Istanbul, che lo soffoca e da cui vuole fuggire per riconnettersi alla natura, rifugiandosi prima nei parchi poi nei boschi. Nessuno di questi riferimenti alla crescente cementificazione della megalopoli, al sacrificio del verde e degli spazi di socialità si esprime così come appare: nella confusione generata dalla fame e dalla sete che pian piano avanza lasciandosi indietro qualunque tipo di convenzione, attraversare le righe scritte da Geçgin è spesso nebuloso e spesso disturbante. Pur nel vagabondare, si percepisce una certa immobilità, ben diversa dal duran adam di quei giorni a piazza Taksim, perché più simile alla rassegnazione che alla resistenza.
Si tratta, certamente, di un effetto voluto, perché è altrettanto straniante per Mahmut non trovare un senso alla sua esistenza e al cammino che ha scelto di intraprendere, alla vita stessa. Se, inizialmente, gli sembrava di essere partito con uno scopo ben preciso, passo dopo passo l’importante è proseguire, anche e soprattutto senza una meta, superando gli incontri violenti con la polizia e i militari, ovvero l’ordine costituito. Inevitabile chiedersi: possibile che nessuno lo stia cercando? Eppure diventa sempre più evidente che quello che Mahmut cerca sia proprio il distacco dagli altri, dal contatto umano che spesso illude e delude, sebbene, nelle ultime pagine, l’incontro con un gruppo che, come lui, cerca soltanto un po’ di libertà, gli ricorda che non può bastare a se stesso.
Tutto solo, verso la libertà
«La libertà non può esistere se si è soli, uomo del mistero. Da soli non c’è salvezza»,
gli dice l’uomo di questa comunità che, non a caso, parla il curdo. In un’assenza di identità personale vista quasi come un’opportunità alla fu Mattia Pascal pirandelliano, questo affanno rappresenta la ricerca di un’identità nazionale e collettiva tanto agognata dai turchi. Perso nel bosco, confondendosi con gli insetti neanche fosse un personaggio kafkiano, sopravvivendo cibandosi di erbe spontanee e selvaggina cruda come cercando di tornare ad uno stato primitivo, Mahmut capisce, però, che non può sfuggire al suo destino, che se il suo popolo non è libero, neanche lui potrà mai esserlo. È curando una bambina in fuga dalla guerra, sebbene non sia chiaro quale, ormai smarriti tutti i punti cardinali, che Mahmut intravede per un attimo un barlume di speranza, come un futuro possibile: la testa leggera, senza pensieri, vuota.
«Non aveva niente in testa. Probabilmente adesso non faceva alcuna differenza trovarsi lì o in qualunque altro luogo. Non sentiva il bisogno di restare lì, né di andarsene. Nessun luogo, si disse, o qualunque luogo».
Così raggiunge la consapevolezza che nessun luogo è davvero libero e le guerre interiori non cesseranno mai, tanto quanto quelle all’esterno, insite nella natura dell’uomo.
Ad oggi, il resto delle opere di Ayhan Geçgin sono in corso di pubblicazione nel catalogo di Utopia.