C’è una foto circolata in questi giorni che segna, meglio di mille parole, una distanza. È la distanza che oggi separa il Kosovo dalla Serbia, e fors’anche i serbi da tutto il resto. La foto è quella che ritrae centinaia di persone radunate di fronte a una basilica dall’elegante facciata in travertino bianco, tre rosoni dorati raffigurano immagini sacre. La basilica è quella di San Sava, la più importante di Belgrado, l’edificio religioso più grande dei Balcani, e le persone che si affollano sul suo sagrato sono cittadini radunatisi per omaggiare i tre attentatori serbo-kosovari caduti durante lo scontro a fuoco di Banjska, nel nord del Kosovo, una manciata di giorni prima.
La veglia e la posizione ufficiale
Era il 24 settembre e quei tre morti facevano parte del commando che, solo poche ore prima, aveva trucidato un poliziotto kosovaro attirandolo in un’imboscata. Un commando composto da una trentina di persone, armate all’inverosimile, come inverosimile era l’arsenale che gli organizzatori aveva messo insieme per quello che, con ogni evidenza, doveva essere un gesto destabilizzante per l’intera regione. Dei “terroristi”, per le autorità kosovare, di certo degli assassini visto l’esito nefasto di quell’azione.
Non la pensa così quella folla davanti a San Sava che, candele alla mano, celebra i tre caduti come eroi, persone degne di una veglia funebre nel cuore della capitale serba. Ma quella parola, quella definizione – eroi – viene addirittura evocata dai vertici serbi, ai massimi livelli. È il ministro della difesa, Miloš Vučević, a indicare quei morti come vittime “per la libertà del Kosovo e della Serbia”: lo fa parlando in televisione, dalle frequenze della rete pubblica RTS – anche questo non un dettaglio secondario – e chiosando il suo intervento definendoli come “eroi e martiri”, appunto. Vučević, stesso, non ha esitato a postare sul suo profilo Facebook una foto con quattro candele e l’augurio di gloria eterna ai caduti, apponendovi addirittura lo stemma ministeriale, a rimarcare una sorta di ufficialità marziale al suo gesto.
Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente serbo in persona, Aleksandar Vučić, che, dopo aver dichiarato il lutto nazionale per celebrare “i tragici eventi in Kosovo” – il 28 settembre scorso – ha sottolineato sibillino che “dal punto di vista della costituzione serba, sono tutti cittadini del nostro paese”: come dire, il Kosovo è Serbia.
Pur volendo considerare come atto dovuto i “messaggi di cordoglio” espressi dal Santo Sinodo – l’organo supremo del Chiesa serbo-ortodossa – risultano decisamente meno comprensibili le manifestazioni che si sono registrate in altre città serbe e, persino, in Bosnia Erzegovina, lato Republika Srpska ovviamente. E’ qui che a Bijeljina – località tristemente nota per la pulizia etnica perpetrata dalle milizie serbe ai danni della comunità musulmana nel 1992 – è stato dipinto un enorme murales raffigurante uno degli “eroi” di Banjska. Vicino alla locale scuola elementare, che le nuove generazioni vanno educate fin da piccole.
Se, infatti, le celebrazioni, il lutto e persino l’orgoglio erano attesi a Zvečan e Leposavić, città natale dei tre miliziani serbo-kosovari uccisi, e in generale in tutto il Kosovo settentrionale – dove, infatti, i giorni di lutto sono stati tre – assai meno scontato era assistere a quanto si è invece visto in Serbia, a meno di non voler rispolverare il concetto di miloseveciana memoria che “Serbia è dove c’è un serbo”.
Un clima che è anche il brodo di cottura per altre violenze come quelle verificatesi a Medveđa, nel sud del paese, dove un gruppo di una quindicina di persone ha preso a sassate le auto e l’abitazione di una famiglia albanese, portando l’unico deputato albanese presente nel parlamento di Belgrado a denunciare una crescente intolleranza verso la popolazione albanese che vive nella valle di Presevo, a seguito dei fatti di Banjska.
La distanza che non si colma e quelle voci fuori dal coro
La distanza evidenziata della foto scattata davanti al tempio di San Sava – e le molte altre simili – non si misura in metri, ma in anni. Quelli che ancora dovranno passare perché i fatti di fine secolo scorso possano diventare storia e non cronaca; quelli che dovranno trascorrere per avere – finalmente – una classe dirigente nuova, non foss’altro per una questione puramente generazionale (vale per la Serbia, ma non solo, ben inteso).
E ancora, quelli che saranno necessari per disintossicare una società frastornata da decenni di propaganda ultranazionalista, di controllo asfissiante del governo sui media e di disinformazione martellante che pongono la Serbia al novantunesimo posto nella classifica mondiale dell’indice che misura la libertà di stampa, unico paese dei Balcani ad aver peggiorato la propria posizione nel 2023.
Un quadro desolante che ha visto la stragrande maggioranza dei giornali allinearsi agli attestati di elogio degli “eroi” di Banjska e la televisione di stato trasmettere nei giorni del lutto il film “Enclave”, una pellicola che racconta della situazione dei serbi in Kosovo. E, in ultimo, ma non per ultimo, un campione come Novak Djoković – non nuovo a queste prese di posizione – postare su Twitter una foto con le candele accese davanti alle foto dei morti serbo-kosovari.
Pochissime le voci fuori dal coro: tra queste quella di Nataša Kandić, attivista serba e coordinatrice di Rekom (la commissione regionale che si occupa di ricostruire i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani avvenuti nell’ex-Jugoslavia dal dicembre 1991) che non ha esitato a definire “malato e corrotto” il governo serbo, pronosticando, amaramente, che “ci vergogneremo” per aver dichiarato il lutto nazionale. Una boccata d’ossigeno arriva anche dalla ONG giovanile Youth Initiative Human Right (YIHR) che in un suo comunicato stampa ha descritto come “profondamente sbagliata e dannosa (..) la decisione di idolatrare e giustificare gli atti di persone sospettate di aver commesso una serie di gravi reati”. Una piccola speranza, anche in prospettiva. Ma nulla di più.
Foto: Eurofrance24