In questi giorni apocalittici del nostro tempo, potrebbe essere utile aprire il libro di storia e dare uno sguardo alle sue nere pagine durante la seconda guerra mondiale quando 120 mila rifugiati polacchi trovarono un porto sicuro sul suolo iraniano.
Il contesto storico
Dopo l’invasione della Polonia da parte dell’esercito tedesco, la maggior parte del territorio polacco occidentale fu annesso direttamente al Reich, mentre, in conformità con i protocolli del Patto Molotov-Ribbentrop, l’Unione Sovietica annetté gran parte della Polonia orientale. Durante la loro occupazione durata quasi due anni, le autorità sovietiche deportarono circa 1,25 milioni di polacchi in molte parti dell’Unione Sovietica.
Nel luglio 1941 la Germania invase l’Unione Sovietica, costringendo i sovietici ad unire le forze con gli alleati. Il 30 luglio 1941, le due parti firmarono l’accordo Sikorski-Mayski, che invalidò molte delle condizioni territoriali del patto Molotov-Ribbentrop e diede via alla formazione di un esercito polacco sul suolo sovietico. Tuttavia, la formazione del nuovo esercito polacco non fu facile. Molti prigionieri di guerra polacchi erano morti nei campi di lavoro dell’Unione Sovietica e i sopravvissuti erano molto deboli a causa delle condizioni dei campi e della malnutrizione a causa della guerra contro la Germania. Pertanto, in seguito all’invasione anglo-sovietica dell’Iran nel 1941, i sovietici accettarono di evacuare parte della formazione polacca in Iran. Anche i rifugiati non militari, per lo più donne e bambini, furono trasferiti in Iran.
L’invasione anglo-sovietica dell’Iran
Nell’agosto-settembre 1941, il neutrale Stato Imperiale dell’Iran viene invaso e occupato congiuntamente dalle potenze alleate dell’Armata Rossa sovietica nel nord e dagli inglesi nel centro e nel sud. L’Iran fu utilizzato come via di trasporto per fornire rifornimenti vitali agli sforzi bellici dell’Unione Sovietica contro i tedeschi.
Gli effetti dell’invasione furono dirompenti per l’Iran. Gran parte della burocrazia statale era stata danneggiata e scarseggiavano il cibo e altri beni essenziali. I sovietici si appropriarono della maggior parte del raccolto nel nord dell’Iran, portando a carenze di cibo per il pubblico in generale. Gli occupanti britannici e sovietici usarono la consegna del grano come merce di scambio e la crisi alimentare fu esacerbata. Nel 1942, a Teheran si svolsero rivolte per il pane, fu dichiarata la legge marziale e diversi rivoltosi furono uccisi dalla polizia. L’inflazione aumentò fino a toccare il 450%, imponendo grandi difficoltà alle classi medie e basse. In alcune zone ci furono morti per carestia.
Rifugiati polacchi in Iran
Ebbe così inizio l’arrivo in Iran di militari, donne e bambini sfollati polacchi. Il gruppo raggiunse l’Iran attraverso due rotte: dal porto di Krasnodsk, in nave attraverso il Mar Caspio, fino al porto di Pahlavi, e via Ashgabat fino a Mashhad. A partire dal 1942, il porto di Pahlavi (ora conosciuta come Anzali) divenne il principale punto di sbarco per i rifugiati polacchi, accogliendo fino a 2.500 rifugiati al giorno. Il generale Anders evacuò in Iran 74.000 soldati polacchi, tra cui circa 41.000 civili, molti dei quali bambini. In totale, oltre 116.000 rifugiati furono trasferiti in Iran di cui 5.000-6.000 ebrei.
Per comprendere le dimensioni relative di questi numeri, va notato che al tempo Tabriz, la seconda città più grande dell’Iran nel 1940, aveva una popolazione di 213.000 abitanti e la popolazione di Teheran era di 521.000 persone.
I rifugiati erano indeboliti da due anni di maltrattamenti e di fame, e molti soffrivano di malaria, tifo, febbri, malattie respiratorie e malattie causate dalla fame. Alla disperata ricerca di cibo dopo aver sofferto la fame per così tanto tempo, i rifugiati mangiarono quanto più potevano, portando a conseguenze disastrose. Diverse centinaia di polacchi, per lo più bambini, morirono poco dopo l’arrivo in Iran a causa della dissenteria acuta provocata dall’improvviso eccesso di cibo. Un gran numero di rifugiati persero la vita a causa di malattie e malnutrizione poco dopo l’arrivo. La maggior parte di questi rifugiati sono oggi sepolti nel cimitero armeno di Anzali. I sopravvissuti, dopo aver trascorso diversi giorni in quarantena nei magazzini vicino al porto di Anzali, furono inviati a Teheran.
Senza esagerazione alcuna, si tratta della più grande migrazione europea attraverso l’Iran che la storia ricordi. 85 mila soldati polacchi lasciarono presto l’Iran per l’Iraq e la Palestina, per poi recarsi in Italia. Ma i civili polacchi rimasero in Iran più a lungo, alcuni per tutta la vita.
Dai compiti in polacco ai tappeti persiani
Migliaia di bambini arrivati in Iran provenivano da orfanotrofi dell’Unione Sovietica, sia perché i loro genitori erano morti sia perché erano stati separati durante le deportazioni dalla Polonia. La maggior parte di questi bambini furono infine mandati a vivere negli orfanotrofi di Isfahan, che aveva un clima gradevole e abbondanti risorse, permettendo ai bambini di riprendersi dalle numerose malattie contratte negli orfanotrofi mal gestiti e mal forniti dell’Unione Sovietica. Tra il 1942 e il 1945, circa 2.000 bambini passarono per Isfahan, così tanti che fu brevemente chiamata la “Città dei bambini polacchi”. Altri bambini furono mandati negli orfanotrofi di Mashhad e Teheran.
Nonostante la carestia, gli iraniani accolsero apertamente i rifugiati polacchi e il governo iraniano facilitò il loro ingresso nel paese fornendo loro delle provviste. Per far sentire i polacchi più a casa, furono fondate scuole polacche, organizzazioni culturali ed educative, negozi, panifici, aziende e stampa. Furono istituite numerose scuole per insegnare ai bambini la lingua polacca, la matematica, le scienze e altre materie standard. In alcune scuole veniva insegnato anche il persiano, insieme alla storia e alla geografia sia polacca che iraniana.
La permanenza dei polacchi in Iran durò più a lungo e fu fornita maggiore piattaforma per il loro lavoro e la loro istruzione. I bambini di Teheran e Isfahan sono stati impegnati nell’apprendimento della tessitura e dell’intaglio dei tappeti nelle scuole istituite in collaborazione con il Ministero della Cultura e l’Ambasciata polacca. Nelle memorie di Helen Stelmach (uno di quei centoventimila) si legge questo passaggio:
“Anni dopo, vidi all’ambasciata polacca un tappeto, che era molto delicato e bello, e pensai che fosse tessuto a Kashan. Ma ho scoperto che gli studenti polacchi di Isfahan avevano tessuto quel bellissimo tappeto durante il loro soggiorno sotto la supervisione dei professori di Isfahan.”
Poiché l’Iran non poteva far fronte permanentemente al grande afflusso di rifugiati, altri paesi iniziarono ad accogliere polacchi dall’Iran dall’estate del 1942 in poi.
Quelli morti, quelli andati via e quelli rimasti
Sebbene la maggior parte dei segni della vita polacca in Iran siano scomparsi, alcuni però sono ancora visibili. Quasi 3.000 rifugiati morirono pochi mesi dopo l’arrivo in Iran e furono sepolti nei cimiteri, e molti di questi luoghi di sepoltura sono ancora oggi ben curati dagli iraniani. Il cimitero polacco a Teheran è il principale e più grande luogo di sepoltura dei rifugiati in Iran, con 1.937 tombe.
Un certo numero di rifugiati polacchi rimasero permanentemente in Iran, alcuni alla fine sposarono cittadini iraniani ed ebbero figli. Anna Borkowska fu una di quelli ormai considerati irano-polacchi. È meglio conosciuta al pubblico internazionale per il suo ruolo di gentile anziana che nel film “Il Palloncino Bianco” di Jafar Panahi aiuta la protagonista nella sua ricerca del pesce rosso perfetto. Borkowska è anche il personaggio principale di “The Lost Requiem” documentario firmato da Khosrow Sinai che racconta in dettaglio questo Esodo del popolo polacco durante la seconda guerra mondiale. Il resto, come al solito, è sepolto nel nero abisso del libro della storia.
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