L’ottimismo con cui nel marzo scorso era stato accolto il cosiddetto accordo di Ohrid, il percorso politico che avrebbe dovuto portare alla normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia, era del tutto immotivato, irrazionale addirittura, ora possiamo dirlo con certezza. Roba da Balcani, verrebbe da dire, per come quell’ottimismo ricordava quello di pari grado vissuto alla vigilia della guerra in Bosnia, quel “Rata neće biti”, ”la guerra non ci sarà” ripetuto come un mantra tra le strade di Sarajevo alla vigilia della catastrofe, anche se tutt’intorno era uno scavare trincee e un ammassare truppe. Le stesse che si stavano ammassando nei giorni scorsi al confine tra Serbia e Kosovo, su ordine del presidente serbo in persona, Aleksandar Vučić, poi ritirate su pressione americana.
Il fallimento UE
Quell’ammassare che, evidentemente, si configura come la naturale involuzione di un accordo mai nato, la pietra tombale su quello che appare oggi un totale fallimento diplomatico, una disfatta politica dell’Unione europea e del suo responsabile agli esteri, Josep Borrell. E se la fragilità di quell’intesa era già implicitamente contenuta nell’indisponibilità delle parti a sottoscriverla ufficialmente, è stato anche l’atteggiamento della stessa UE a minarlo fin dalle fondamenta. A partire dalla mancanza di equilibrio con cui si è posta tra le parti e quel reiterato puntare il dito contro il Kosovo e contro il suo primo ministro, Albin Kurti, spesso indicato come principale responsabile della mancanza di progressi. Ignorando, così, che l’equidistanza tra i contendenti è conditio sine qua non di chi si fa arbitro, e che il discredito gettato su una parte si traduce – quasi congruentemente – nel rischio di prevaricazione dell’altra, in arroganza, in prepotenza.
Non è un caso che la presidente kosovara, Vjosa Osmani, abbia ribadito solo pochi giorni fa una sorta di debito di gratitudine “storica” verso gli Stati Uniti, riconoscendogli indirettamente il ruolo di vera guida nel percorso di pacificazione con il vicino serbo. La debacle della diplomazia UE sembra, dunque, completa, come anche dimostrato dal clamoroso insuccesso dell’ultima tornata di colloqui bilaterali di inizio settembre e come ulteriormente comprovato dall’indisponibilità annunciata dai leader di Pristina, all’indomani dei fatti di Banjska, a sedersi attorno a un tavolo con la controparte serba, fintanto che la UE non si dimostri predisposta a “cambiare la sua politica verso Vučić”.
Il nastro degli ultimi mesi
Una debacle che appare in tutta la sua plastica crudezza riavvolgendo il nastro del tempo, da quei giorni di inizio primavera sulle sponde del lago di Ohrid – in Macedonia del Nord – fino al 24 settembre scorso, quando alle parole si sono sostituite le raffiche dei mitra e alle strette di mano, i morti ammazzati sul terreno.
Subito dopo Ohrid, ad aprile, quattro municipalità del nord del Kosovo – a maggioranza serba – vanno alle urne dopo che, pochi mesi prima, le dimissioni in blocco delle giunte uscenti avevano aperto una crisi politico-istituzionale. Le dimissioni sono il risultato della clamorosa protesta inscenata dai sindaci serbi uscenti, insieme ai serbi che lavoravano per polizia e corti kosovare, contro la politica del premier Kurti, in particolare contro la decisione di imporre la re-immatricolazione di tutte le auto recanti targhe emesse dalle autorità serbe con denominazioni di città del Kosovo. È la cosiddetta “guerra delle targhe” che si trascina da oltre un anno in una sorta di teatro dell’assurdo tra Belgrado e Pristina: è soprattutto questo il casus belli che innesca la spirale che porta alle dimissioni e al successivo boicottaggio serbo delle consultazioni cui, infatti, partecipano solo il 4% degli aventi diritto, grossomodo quanti gli albanesi residenti. Quei quattro sindaci albanesi – esito scontato dello spoglio – sono la scintilla che dà il via alle proteste dei serbi e alla violenza.
Gli scontri durano giorni e sono durissimi, trovando il loro apice il 29 maggio quando a Zvecan – una delle quattro municipalità coinvolte – uomini serbi a volto coperto entrano in contatto con i militari NATO della KFOR. Tra di loro ci sono anche membri di note organizzazioni criminali serbe, armati di tutto punto. I feriti sono decine, alcuni gravissimi, diversi uomini della NATO restano coinvolti, undici sono italiani.
È in queste stesse settimane e, soprattutto in questo stesso clima, che il piano di Ohrid si trova a muovere i primi passi. È evidente che non ci sono le condizioni, probabilmente nemmeno la volontà. La designazione del comitato congiunto per le persone scomparse è l’unico elemento concreto nell’alveo indicato dal piano, ma senza reali progressi nel difficile percorso per ritrovare le persone scomparse durante la guerra del 1998-99. Così come si configura come atto di pura facciata la costituzione della commissione che dovrebbe monitorare i progressi dell’accordo e della quale, invece, si sono perse le tracce.
Dopo i fatti di Zvecan la tensione tra Kosovo e Serbia è all’apice, la Serbia concentra le proprie truppe al confine in stato di massima allerta, tre granate esplodono davanti altrettante stazioni di polizia nel nord del Kosovo. A metà giugno i servizi segreti serbi fermano tre poliziotti kosovari: un “rapimento” compiuto in territorio kosovaro, secondo Kurti, un “arresto” per aver varcato illegalmente il confine, per la controparte. Perché le parole sono importanti. Il commissario Borrell cerca di mettere intorno allo stesso tavolo Kurti e Vučić per una riunione di emergenza. È la fine di giugno, siamo a Bruxelles, e il tentativo fallisce miseramente.
La delusione per il mancato incontro è stemperata solo dalla promessa strappata da Borrell a Kurti circa la necessità di indire nuove elezioni nei quattro comuni: ma sul come e quando non c’è intesa. Una promessa estorta dopo che l’UE ha deciso l’imposizione di sanzioni contro il Kosovo, come la sospensione della programmazione dei fondi per il 2024. Sono, questi, segnali inequivocabili della perdita di equidistanza del commissario europeo, sempre più irritato dal comportamento di Kurti e sempre più accomodante con il leader serbo che, per parte sua, è ben lieto di ricorrere a un classico del suo repertorio: quello della vittima. Eccolo allora lamentarsi del clima di “terrore che i serbi in Kosovo sono stati costretti a sopportare finora”. Un segnale, quello che traspare dall’atteggiamento di Borrell, che si rinforza a metà settembre quando, all’indomani del fallimento dei colloqui bilaterali, individua nell’”indisponibilità ad andare avanti” di Kurti la ragione dell’insuccesso.
Il resto è la cronaca recente delle ultime settimane, quella che ci porta a Banjska, sempre lì, sempre profondo nord del Kosovo. È qui che un commando paramilitare serbo, almeno trenta persone armate fino ai denti, attacca una pattuglia di polizia attirata da due camion che ostruiscono il ponte che conduce al locale monastero ortodosso. Un poliziotto kosovaro resta ucciso subito, stessa sorte tocca a tre assalitori poco dopo essersi asserragliati nel monastero; altri vengono arrestati, la maggior parte riesce a fuggire. Nel luogo dello scontro viene trovato un vero e proprio arsenale: armi esplosivi, droni, materiale sufficiente a equipaggiare centinaia di persone. Un piano programmato da mesi, con ogni evidenza.
Osmani parla di “prove inconfutabili” che dietro all’azione militare ci sia la Serbia e non esita ad accusare Vučić come colui che ha finanziato e guidato l’operazione. Le autorità kosovare identificano Milan Radojičić, vicepresidente della Lista serba – il principale partito politico che rappresenta i serbi in Kosovo con l’appoggio ufficiale di Belgrado – come organizzatore e partecipante dell’attacco. Nei giorni successivi il parlamento kosovaro vota compatto una risoluzione che definisce l’avvenimento come “attacco terroristico” e i vertici di Pristina paventano, addirittura, un piano di Belgrado per l’annessione dell’intero Kosovo settentrionale.
Per canto suo Vučić rispedisce le insinuazioni al mittente e accusa Kurti di voler scatenare un nuovo conflitto con la Serbia in combutta con la NATO. Il solito tragico teatrino. E per dimostrare buona volontà verso la comunità internazionale fa arrestare Radojičić – che si prende tutta la responsabilità dell’accaduto – ma dipingendolo, al contempo, come “vero patriota”: un colpo al cerchio e uno alla botte. E un occhio, evidentemente, alle imminenti votazioni, dove a farla da padrone saranno – come sempre – i temi cari al nazionalismo e al suo bacino elettorale. I capi d’accusa per Radojičić sono ridicoli: associazione a delinquere, possesso illegale di armi ed esplosivi e gravi atti contro la sicurezza pubblica, al punto che viene rilasciato subito col solo divieto di lasciare il paese.
Il piano inclinato
Gli ultimi mesi sembrano aver posto il dialogo su un piano inclinato inarrestabile. Se alla fine di questo piano ci sia il baratro di una nuova guerra o l’inizio di una nuova fase è impossibile da dire oggi. Non deve ingannare, in questo senso, il ritiro di buona parte delle truppe serbe dal confine con il Kosovo, mentre sembra assai più significativa la decisione NATO di ingrossare il contingente KFOR con l’arrivo di altri soldati britannici, tedeschi e rumeni. Una decisione, non la prima quest’anno, che punta a rinforzare quella leva di deterrenza sulla possibile escalation della disputa, leva che sinora ha garantito il mantenimento della pace, seppure di una pace livida di tensione.
Il tutto descrive un quadro in cui ogni ipotesi di normalità sembra inconcepibile lasciando invece spazio all’idea di “normalità impossibile”, un paradosso immaginabile solo da queste parti. Un paradosso in cui la folla che si raduna per onorare i “caduti serbi” durante l’attacco di Banjska e le manifestazioni di idolatria che ne sono conseguite, trovano un loro posto e una loro logica, per quanto perversa.
All’orizzonte, nell’immediato futuro, si affastellano mille incognite e mille insidie: la richiesta sempre più pressante e reiterata di Pristina per un ingresso del Kosovo nella NATO, le elezioni in Serbia e il loro esito scontato, il ruolo della Russia, i rapporti ormai logorati tra chi invece dovrebbe dialogare.
Intanto il vertice della comunità politica europea svoltosi a Granada, il 5 e 6 ottobre scorsi, è stata un’altra occasione persa. L’Europa dei veti incrociati e degli equilibrismi impossibili ha deciso, ancora una volta, di non decidere. Nessuna sanzione è stata stabilita contro la Serbia per i fatti di Banjska, grazie soprattutto alla netta contrarietà del fronte guidato dal leader ungherese Viktor Orban. Un segnale anche questo che si aggiunge al resto, inclusa l’estenuante discussione “sul se e sul come” allargare la UE ai paesi balcanici che da anni sono in lista d’attesa: tra loro Serbia e Kosovo, accomunati almeno in questo.
Non un bel segnale.
Foto: Eunews