In Ungheria, un nuovo libro di storia russo ha suscitato le proteste di governo e popolazione per la descrizione fatta degli eventi del 1956
Un nuovo libro di testo
Il primo settembre, in Russia, è uscito un nuovo libro. Più precisamente si tratta di un manuale di storia, il cui studio interesserà tutti i ragazzi e le ragazze dell’undicesima classe, più o meno corrispondente all’ultimo anno delle scuole superiori del sistema scolastico italiano. “Dal 1945 all’inizio del XXI secolo” – cui autore, emblematicamente, è Vladimir Medinskij, consigliere di Putin ed ex ministro della cultura – rappresenta una summa del pensiero storiografico putiniano, dall’ “operazione speciale preventiva” alle responsabilità della NATO, dalla denazificazione ucraina (titolo di un capitolo dedicato) alla “propaganda occidentale”.
Ampio spazio è riservato all’operato di Putin (un centinaio di pagine) e all’invasione dell’Ucraina (diciotto pagine), ma il libro ripercorre tutta la parabola sovietica, dalla guerra ad oggi. Il manuale diventa così un documento prezioso per approfondire le distorsioni interpretative operate dal Cremlino: per stessa ammissione dell’autore, infatti, il manuale si propone di “presentare il punto di vista della comunità accademica attraverso il prisma della posizione dello stato riguardo agli eventi correnti”.
Malumori ungheresi
Particolare risalto ha avuto nella stampa ungherese la descrizione che il testo propone della rivoluzione del 1956. I toni e il lessico adottati combaciano con quanto si scrive, nel manuale, a proposito della rivoluzione di Maidan: radicali ribelli e simpatizzanti fascisti, sobillati e sovvenzionati dai servizi segreti occidentali, scatenarono il panico, rendendosi protagonisti di molteplici massacri; le forze sovietiche, invocate dalla popolazione, riuscirono, senza aprire il fuoco, a ripristinare l’ordine.
Dura è stata la reazione del Segretario di Stato ungherese Tamàs Menczer, che ha sottolineato come i manifestanti si ribellarono, spontaneamente, alla dittatura comunista. “La cosa è talmente chiara che non discuteremo con nessuno a riguardo”.
Solo qualche giorno fa, in occasione dell’Eastern Economic Forum di Vladivostock, Vladimir Putin, probabilmente preoccupato di poter perdere l’“ambiguità” ungherese nel contesto dell’invasione, ha corretto il tiro, parlando di “politiche errate dell’Unione Sovietica” che inviando i suoi carrarmati in Ungheria “creò soltanto tensioni”. “In politica estera non si può fare nulla che sia in chiara contraddizione con gli interessi degli altri popoli”, ha aggiunto. E se quest’ultima affermazione parrebbe smentire l’intera impalcatura ideologica dell’“operazione speciale”, Putin la interpreta in altro modo: “è proprio questa tendenza che i principali paesi occidentali stanno calpestando oggi”.
Orban al bivio
L’intera vicenda ben si presta ad almeno due osservazioni.
Da una parte la storia si riconferma come uno dei terreni di scontro ideologico prediletti dal Cremlino – e d’altronde lo stesso Putin è autore di un saggio “storico”, Sull’unità storica di russi e Ucraini. Moltissime delle giustificazioni date dal governo prendono le mosse da una – distorta, imparziale e contradditoria – interpretazione storica. In società che fanno della cultura della memoria un caposaldo, la reinterpretazione della storia nazionale (e a maggior ragione di momenti percepiti come fondanti, quale è la rivoluzione del 1956 per gli ungheresi) diventa un’affilata arma politica.
D’altra parte, lo stesso Orban si è più volte dilettato nell’esposizione di una sua personale visione sui fatti del ’56, evitando qualsiasi paragone – che pure sarebbe spontaneo e non completamente errato – tra la l’Ungheria di allora e l’Ucraina di oggi. Insomma, “io mi delizio di dirmele da me, facendone anche incetta, ma non permetto che nessun altro si permetta”, avrebbe detto Cyrano. Il governo ungherese prosegue su un binario quantomeno ambiguo la sua politica nei confronti di Russia e Ucraina, invocando un’equidistanza che fa il gioco del Cremlino.
Foto: Fortepan, Wikimedia Commons