Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, si sono incontrati giovedì scorso, 14 settembre, a Bruxelles, alla presenza del capo della diplomazia dell’Unione europea, Josep Borrell, e dell’inviato speciale dell’UE per il dialogo tra Serbia e Kosovo, Miroslav Lajčák. E con questa finiscono le buone notizie: buona perché nella precedente occasione, a giugno di quest’anno, Borrell e Lajčák non erano nemmeno riusciti a far sedere i due leader faccia a faccia e si erano dovuti accontentare di vederli separatamente, prima l’uno, poi l’altro.
Unica buona notizia anche perché sul resto non ci sono dubbi che sia stato un fallimento totale: è stato lo stesso Borrell, d’altronde, a dichiararlo a margine del meeting, ammettendo l’impossibilità “di colmare le differenze” tra i due antagonisti e puntando decisamente il dito contro il rappresentante kosovaro, a suo dire indisponibile “ad andare avanti”.
Il nulla di fatto dopo l’accordo
Resta la considerazione oggettiva che l’accordo di Ohrid, ovvero il patto con cui nel marzo scorso le due parti si erano impegnate a intraprendere un percorso di normalizzazione delle proprie relazioni, è di fatto al palo. Carta morta. Nessun progresso concreto è stato fatto su alcuno degli undici punti messi nero su bianco nell’allegato del trattato: persino la presunta convergenza circa la creazione del comitato congiunto per le persone scomparse – nominato con l’obiettivo di aiutare gli sforzi per ritrovare le persone scomparse durante la guerra del Kosovo del 1998-99, sia serbe che albanesi – non ha portato ad alcun risultato tangibile.
Così come non si sa molto della commissione nominata all’indomani di Ohrid per monitorare i progressi dell’accordo e che quell’accordo avrebbe dovuto indirizzare passo a passo: composta da una rappresentanza mista – l’ambasciatore kosovaro a Bruxelles, Agron Bajrami e il direttore dell’ufficio serbo per il Kosovo, Petar Petković – avrebbe dovuto riunirsi su base regolare. Ciononostante, dopo gli approcci della primavera passata, non c’è traccia di un piano d’azione, così come non è ben chiaro quali funzioni e quale struttura siano stati definiti.
Troppe cose sono successe dopo quel momento acclamato, forse troppo frettolosamente, come storico. Primi tra tutti i disordini scoppiati a maggio dopo la nomina di sindaci di etnia albanese alle elezioni comunali nelle quattro municipalità a maggioranza serba nel nord del Kosovo, elezioni boicottate per protesta dai serbi. Disordini orchestrati dai serbi – cui avevano preso parte anche uomini a volto coperto ben armati ed organizzati, appartenenti a note organizzazioni criminali – che avevano provocato il ferimento di decine di soldati del contingente della KFOR, costringendo Kurti su pressione dell’Unione europea ad aprire all’ipotesi di una ripetizione della consultazione.
Oltre alle modalità per lo svolgimento di queste nuove elezioni, per le quali al momento non c’è alcuna data, al centro della disputa tra Belgrado e Pristina c’è soprattutto la questione riguardante l’approvazione dello statuto per la creazione di un’Associazione/Comunità dei comuni a maggioranza serba (ASM), di fatto uno strumento di autogestione per i serbi del Kosovo che prevede anche la costituzione di un organismo con poteri esecutivi. Vero punto cardine del contendere, questo, al pari delle pretese kosovare circa il riconoscimento de-facto della propria indipendenza da parte della Serbia, lasciato intendere nei primi articoli dell’intesa raggiunta a Ohrid. Ed è proprio sull’ordine con cui affrontare questi nodi che si è arenato il confronto di giovedì scorso: mentre per Kurti è necessario che la Serbia faccia i primi passi previsti dall’intesa in termini di riconoscimento della statualità del Kosovo, l’UE si aspetta prima di tutto dal Kosovo dei passi concreti e immediati per la creazione dell’ASM, prevista già dagli accordi di Bruxelles del 2013.
La normalità impossibile
Nessuna novità, dunque. E, anzi, la sensazione che il tanto sbandierato impegno di Ohrid abbia ottenuto l’effetto paradossale di rallentare il processo di normalizzazione, congelato lo slancio dei mesi che lo avevano preceduto, fatto accrescere la diffidenza reciproca. E non si può non pensare al fatto che quel patto non è stato né firmato, né ratificato dalle parti e che, di conseguenza, la sua validità giuridica lascia il tempo che trova.
I dubbi in merito all’attuabilità dell’intesa, dunque, si rinforzano di mese in mese e sembrano dar ragione ai tanti detrattori che, da subito, dubitarono di essa. Occorrerebbe, forse, che UE e Stati Uniti ripensassero il modus operandi, rivedessero il percorso e che, oltretutto, trovassero un maggior equilibrio nell’approccio con le parti in causa, alleggerendo “il tono accusatorio nei confronti del Kosovo, piuttosto che della Serbia, in materia di escalation del conflitto”.
Il duello tra Vučić e Kurti sembra sempre di più la copia sbiadita di quello di certi B-movie dove gli antagonisti, l’uno di fronte all’altro, hanno il terrore di fare la prima mossa. Paura comprensibile, certamente, la pressione delle reciproche opinioni pubbliche è enorme, storica la posta in gioco: la propria sicurezza, persino la propria sovranità. L’uno è l’ex-ragazzo prodigio dell’era Milošević e di quel regime era ministro della propaganda negli anni delle violenze su vasta scala in Kosovo. L’altro è l’uomo del precoce attivismo politico, quello delle rivolte studentesche, colui che proprio da quel regime fu internato nelle patrie galere serbe per due anni e mezzo.
È indubbio che esistano ragioni storiche solidissime che giustificano l’apparente rigidità di Kurti, persino le sue posizioni più ostruzionistiche. D’altra parte, Vučić rappresenta la continuità non solo cronologica ma anche culturale del periodo miloseviciano e questa sua attitudine è, con ogni probabilità, alla base della sua innegabile longevità politica. Ma entrambi sono forse “troppo dentro” la storia del proprio paese per poterla vedere col necessario distacco, con la necessaria freddezza, quella che forse servirebbe ora. Un paradosso forse solo apparente, una miopia che non consente la messa a fuoco da vicino. Solo un ostacolo in più verso la pace: non l’unico purtroppo.
Foto: Kosovapress