Quando lo scorso 12 settembre con il triplice fischio l’arbitro francese, Willy Delajod, ha mandato i calciatori delle nazionali di Romania e Kosovo negli spogliatoi, i loro colleghi in giro per mezza Europa erano sotto la doccia già da un pezzo. E questo non perché il direttore di gara si fosse deciso ad assegnare un maxi-recupero per dare alla compagine kosovara l’improbabile chance di rimontare le due reti di svantaggio, quanto perché, lo stesso, si era visto costretto a sospendere l’incontro per quasi un’ora.
I cori e la sospensione della partita
Correva il diciottesimo minuto del primo tempo e dagli spalti della National Arena di Bucarest un nutrito gruppo di tifosi della Romania, appartenenti alla falange di supporter di estrema destra “Uniti sotto il Tricolore”, reiterava l’inneggiamento “Serbia, Serbia” accompagnandolo con fumogeni e cori ingiuriosi. Ma la goccia che ha fatto traboccare il famigerato vaso è arrivata con l’esposizione di due striscioni, l’uno riportante a caratteri cubitali “Kosovo è Serbia”, il secondo con scritto “Bessarabia è Romania”, evocando con ciò un parallelismo tra le due questioni e il tema, tanto caro agli ultranazionalisti locali, della Moldavia come appartenente alla Romania.
Un atteggiamento che la Federazione kosovara ha definito, a stretto giro, come “discriminatorio e razzista” e che, nella concitazione del momento, ha indotto l’UEFA a sospendere il match e la rappresentativa ospite a lasciare il campo di gioco per riguadagnare la via degli spogliatoi anzitempo. Sono serviti cinque appelli dello speaker e l’intercessione del capitano rumeno, Nicolae Stanciu, e del presidente della federazione, Razvan Burleanu, per convincere i tifosi a interrompere la sceneggiata normalizzando la situazione. Una situazione, va notato ad onor di cronaca, che ha riguardato solo poche centinaia di tifosi – a fronte delle oltre trentamila presenze – e che è stata stigmatizzata dalla federazione rumena che ha infatti espresso “condanna per i messaggi di natura politica, ideologica, religiosa e ingiuriosa”.
Le ragioni
Nulla di nuovo sotto i cieli di Bucarest, così come sotto molti altri cieli, a dire il vero. E nemmeno nulla di sorprendente. Solo la continuazione ideale di un’ostilità che si trascina già dal 2008, da quando, cioè, il Kosovo ha dichiarato la propria indipendenza. Un’indipendenza riconosciuta dalla maggioranza della comunità internazionale ma non dalla Romania, al pari – tra gli altri – di uno sparuto drappello di paesi comunitari: Spagna, Grecia, Cipro e Slovacchia. Tutti paesi, questi, accumunati da beghe separatiste interne (ben due per la Spagna, quelle di Catalogna e Paesi Baschi) e quindi assai sensibili al tema dell’integrità territoriale.
Stesso dicasi per la Romania per la quale il file aperto riguarda la Transilvania – regione nel cuore del paese, confinante a ovest con l’Ungheria – nella quale risiede una significativa comunità ungherese. Poco meno del 20% dell’intera popolazione regionale, secondo l’ultimo censimento, in calo costante da quando nel 1918 la Transilvania è diventata parte integrante del territorio rumeno, in ragione della politica di romanizzazione portata avanti per decenni. Una minoranza significativa, comunque, con mire separatiste mai sopite, alla quale strizza l’occhio anche il primo ministro ungherese, Viktor Orban, interessato a favorire l’autonomia di tutte quelle realtà ove risiedano minoranze ungheresi, nel sogno malcelato della cosiddetta Grande Ungheria.
Non è un caso che, all’indomani della notizia della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, gli unici a far festa in Romania furono proprio gli ungheresi di Transilvania e che i leader del Consiglio Nazionale degli Szekler, un’organizzazione etnica ungherese, organizzarono manifestazioni di giubilo durante le quali furono esposti striscioni di solidarietà – “Ben fatto Kosovo” – e rivendicazione a uso tutto interno: “Diritti alle minoranze”, “Viva l’autonomia nazionale”.
Le relazioni rumeno kosovare
Accanto alle preoccupazioni ora espresse è del tutto evidente, però, che l’approccio ostruzionistico verso un possibile riconoscimento del Kosovo ha anche risvolti politici – come quelli legati a quella parte della classe politica rumena intenta a coagulare attorno a se stessa il consenso dell’elettorato nazionalista – ed economici.
È evidente che la partnership economica con la Serbia sia, per Bucarest, di gran lunga più strategica rispetto a quella con Pristina. Sebbene lo scoppio della pandemia abbia fatto rallentare il ritmo negli ultimi due anni, nel 2021 il totale degli scambi di materie prime tra i due paesi aveva superato i due miliardi di Euro, in costante crescita nell’ultimo decennio. Lo stesso per l’ammontare degli investimenti rumeni in Serbia, anch’essi in aumento, seppure con cifre largamente inferiori.
Nonostante permangano le motivazioni che indussero, quindici anni fa, la Romania a non ammettere l’indipendenza del Kosovo, l’atteggiamento di Bucarest verso il Kosovo è – ed è stato – relativamente “morbido”. Nel 2013 il governo rumeno decise, infatti, di riconoscere i passaporti kosovari e non si oppose esplicitamente, a differenza di quanto fatto dagli altri paesi UE refrattari al suo riconoscimento, alla sua adesione all’UNESCO.
Ciononostante, se nel 2015 l’allora primo ministro rumeno Victor Ponta aveva mostrato un atteggiamento decisamente aperturista verso il “gran passo” del riconoscimento, la sua estromissione dallo scenario politico nazionale a seguito di scandali e guai giudiziari assortiti e la sua conseguente caduta in disgrazia, sono di fatto coincisi con il raffreddamento del tema dall’agenda e dal dibattito politico, nonché con la scomparsa dell’argomento dai programmi dei principali partiti. Una situazione che non sembra essersi modificata, pur con l’affacciarsi nel panorama nazionale di nuovi movimenti, a maggior ragione ora, nell’attuale quadro internazionale. E, con ogni probabilità, fintanto che non si saranno normalizzate le relazioni tra Kosovo e Serbia.
In questo contesto, la Romania non ha un’ambasciata a Pristina e ad aprile ha riconfermato la propria contrarietà all’ingresso del Kosovo nel Consiglio d’Europa, rinforzando così l’impressione che dalle parti di Bucarest a preoccuparsi del piccolo stato balcanico restino solo gli ultras da stadio e tutti coloro che, per ragioni non sempre nobilissime, danno fiato alle loro urla sgangherate.
(Foto Eurosport)