Explanation for Everything di Gábor Reisz vince il premio al miglior film nella sezione orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia.
Uno dei film di cui si è parlato di più al lido è il terzo lungometraggio di Gábor Reisz. Un film dal contenuto politico forte, ma anche un’opera notevole, che ancora una volta riporta il cinema ungherese sotto i riflettori. Abbiamo incontrato il regista Gábor Reisz e la produttrice Julia Bérkes durante il festival.
Come siete riusciti ad ottenere i finanziamenti per un film così critico?
Reisz: Il film non ha ricevuto finanziamenti statali, con Julia Bérkes ci siamo incontrati già al primo anno di accademia nel 2006 e lavoriamo insieme dal 2009. Quando l’istituto nazionale ci ha negato I fondi per la seconda volta abbiamo deciso che faremo il film in qualche modo lo stesso. Julia ha contattato la Proton Cinema di Kornél Mundruczó (il regista di White God – Sinfonia per Hagen e Pieces of a Woman) per raccogliere il piccolo budget richiesto. In seguito abbiamo avuto anche l’aiuto finanziario del produttore slovacco-ungherese Mátyás Prikler che ci ha permesso di accedere ai fondi dell’istituto nazionale di cinema slovacco.
Bérkes: Con gli slovacchi è stato più facile perché non dovevamo spiegare nulla, avevamo già un primo montaggio pronto.
Si tratta di un film dalla durata notevole. Per caso c’è stata una fase in cui il film durava di più?
R: Il primo montato durava tre ore e venti minuti. Era una cosa nuova per noi avere un montato così lungo. Io dico che in ogni primo montato c’è lo spazio del 15-20% affinché venga accorciato, ci sono scene in cui per motivi drammaturgici vanno rimosse delle scene. È normale che un regista-sceneggiatore si affezioni a certe scene di cui deve liberarsi. C’è una scena in particolare che mi dispiace aver tagliato, un dialogo tra il professore e sua moglie, una scena che si trova anche nel libro in un punto in cui è difficile concentrarsi su una conversazione e la trama deve muoversi. Mi dispiace, dicevo anche a Julia che dovremmo caricarlo da qualche parte.
L’attore che interpreta Abel colpisce per la sua fisionomia, sembra quasi un tipico ragazzo da folclore ungherese. Com’è avvenuta la sua scelta?
R: C’è sempre un aspetto di verosomiglianza nelle scelta dell’attore, che sia qualcuno che possa trasmettere sé stesso in modo creativo, ma molto spesso vedo un volto e suona un po’ stupido dirlo in questi termini, conta di più se il volto riesce a “parlare”, anche se non dice nulla. Ci sono molte persone attraenti e belle ma che magari nel volto hanno un’estetica normativa ma che non hanno quel qualcosa. Quando abbiamo chiesto delle audizioni video dai candidati Gáspár Adonyi-Walsh già da subito mi aveva colpito e la decisione è stata quasi immediata.
Il film è in 4:3, quale intenzione avevate con questa decisione? Il solito effetto “claustrofobico” o altro?
R: Nel 4:3 c’è un effetto claustrofobico ma è stato cruciale la nostra scelta di focalizzarci molto sui volti. Nel film ci sono pochissimi campi lunghi o medi, nell’80-90% ci sono solo volti. Non a caso Bergman ed altri sono rimasti nei 4:3. Con il direttore della fotografia Kristóf Becsey scherzavo sul fatto, dicevo che eravamo in 4:3 perché è low budget e che le barre nere sono il budget che non avevamo. C’è indubbiamente comunque una moda nel cinema d’autore legata all’uso dei 4:3, come per esempio con Il Figlio di Saul, l’ho notato anch’io.
La struttura del film all’inizio sembrava essere ripreso da Rashomon, con i tre punti di vista, ma nel corso del film cambia. Come avete sviluppato questa narrazione?
R: Ho scritto il libro dal quale abbiamo tratto il film con Eva Schultze, che era un po’ il mio mentore e che mi guidava nella stesura di quest’opera. Mi ha suggerito di focalizzarmi sui personaggi e di iniziare dal giorno che precede l’esame di maturità. Mi sono seduto a scrivere e mi sono reso conto che è più facile scrivere in prima persona. Era un po’ una novella. Secondo mia moglie e Julia era piacevole da leggere, non so se effettivamente poi lo è davvero. Poi, quando sono passato a ragionare sul come mettere la storia in scena, mi sono reso conto che le scene che si ripetevano dovevano essere diverse tra loro per rispecchiare le diverse prospettive. C’è poi un punto decisivo in cui tutto ciò che era soggettivo diventa oggettivo, e lo abbiamo tentato di inscenare anche con la fotografia: le parti inerenti alla giornata del padre, di Abel e del professore sono inquadrature in cui la macchina da presa segue il soggetto. Un riferimento chiaro è la scena della maturità, nella quale vediamo il volto del soggetto solo quando è strettamente necessario. La macchina da presa inizia a distanziarsi dai soggetti quando si diffonde la notizia sull’esame. Da lì abbiamo iniziato anche ad usare ottiche più strette, per permettere di percepire la distanza anche allo spettatore.
In una scena vediamo il professore discutere con un testimone del ’56, un confronto che non ha buon fine. Dato che il professore è portavoce di vedute liberali, qual’è il significato di questo confronto?
R: Secondo me la percezione del ‘56 è cambiata in modo sconcertante negli ultimi 8-10 anni. È uscita da pioco la notizia che nei libri di storia russi vengono descritti come “fascisti” gli eroi del ‘56, le destre hanno una percezione molto diversa oggi del ‘56 rispetto ad un tempo, cosa che è escalata con la guerra in Ucraina. Volevo questa scena per mostrare una distanza generazionale e perché permette di reiterare il tema del film, ovvero che tutti hanno prospettive diverse. Nella scena abbiamo una persona che ha vissuto il ‘56, accanto a lui un professore di storia che cerca di comprenderlo, e vediamo quanto non sia in grado di farlo. Anche il modo in cui il professore inizia a discutere con il testimone sulle date esatte, se il professore non c’era perché interviene? Ci siamo divertiti molto durante le prove perchè il testimone del ‘56 è un tipico personaggio anziano che guarda ai più giovani dall’alto verso il basso. É stato un onore lavorare fon Tamas Fodor, un attore ultraottantenne che domina la scena da subito, non riesci e non ha senso provare a prevaricarlo.
Alla fine, in Explanation for Everything, non c’è “una spiegazione a tutto”. Secondo lei il film compie una presa di posizione?
R:Secondo me no. Era evidente che se poniamo dei giudizi roviniamo la missione del film, che è quella di cercare di comprendere le sofferenze di entrambi i lati. Il titolo, in ungherese Magyarázat mindenre, è nato perché volevo includere in qualche modo la parola “Magyar” (ungherese). Il “tutto” del titolo intende tutto, entrambe le posizioni. Mi viene in mente un momento in cui un padre dice che il figlio trova sempre una scusa o spiegazione per le sue azioni.
Non vengono mai citati canali di media esistenti nell’opera, c’è un motivo per questo?
B: Non potevamo. Volevamo includere nomi di canali e giornali esistenti, abbiamo contattato moltissimi enti per chiedere il permesso, all’inizio si sono dimostrati disponibili ma appena spiegavamo di cosa tratta il film, nella maggior parte smettevano di rispondere, o chiedevano se si trattasse di un “film politico”, e si dileguavano.
R: Secondo la mia mentore, Eva Schultze, sulla preproduzione, produzione e la reazione della stampa si potrebbe fare un intero documentario. Le persone se la fanno addosso appena percepiscono che qualcosa è politico. Io non progetto di fare concorso in enti pubblici ma sicuramente temo che il fisco inizierà ad indagarmi, o alla peggio che qualcuno mi assalga per strada.
Ad un certo punto, il professore nel film afferma che, nel clima di oggi, non è possibile porre certe domande senza giudizio. Lei si è mai sentito, durante la produzione, di non poter toccare certi temi, porsi certe domande?
R: No. C’erano scene che avrebbero spiegato meglio la storia della Coccarda, in una versione della sceneggiatura c’era l’intervento di esperto storico che avrebbe compiuto un escursus da un paio di minuti, ma poi abbiamo deciso di lasciar perdere, perché era superfluo.
Il lungometraggio esce nelle sale ungheresi ad Ottobre. Quale reazione vi aspettate?
R: È un po’ ingenuo sperarlo ma vorrei che generi un dialogo che possa riunire un paese distrutto. In primo luogo spero in questo. Bisogna lavorarci per forza. È bello pensare che abbiamo fatto qualcosa per contribuire. Poi è legittimo anche ritenere che il tutto sia un’impresa alla Don Chisciotte, ma bisogna comunque farlo.
In Italia, il film verrà distribuito nelle sale da I Wonder Pictures.