In Croazia l’operazione militare Oluja, portata avanti dall’esercito a partire dal 4 agosto 1995, viene celebrata ogni anno a Knin. La Serbia commemora invece una tragedia nazionale e centinaia di vittime. Entrambi i paesi però guardano solo alle proprie vittime e non si assumono responsabilità.
Ogni anno il 4 agosto nella cittadina di Knin in Croazia, oggi con poco più di 8.000 abitanti, il governo e l’esercito croati celebrano con musica, bandiere e fiori il “Giorno della vittoria”. Questa ricorrenza vuole ricordare l’inizio, nell’estate del 1995, dell’operazione militare Oluja (Tempesta) che, nel giro di pochi giorni, libera buona parte della Krajina, territorio croato al confine con la Bosnia in quel momento sotto il controllo dei ribelli serbi. Questi ultimi, sostenuti economicamente e militarmente dal regime di Slobodan Milošević a Belgrado, nel 1991 avevano fondato una nuova entità statale indipendente denominata Repubblica della Krajina serba il cui centro amministrativo era appunto la cittadina di Knin, importante centro ferroviario della Jugoslavia.
L’operazione militare dura solo pochi giorni poiché la resistenza da parte dell’esercito che fu della federazione jugoslava, ma che in quel momento è composto in gran parte da serbi, oppone pochissima resistenza e ben presto ripiega verso la Bosnia-Erzegovina dove invece il conflitto contro i bosgnacchi (bosniaci di religione musulmana) è ancora nel vivo ed è al centro degli interessi territoriali di Milošević.
Le più gravi conseguenze di tale operazione militare ricaddero, come spesso accade, sui civili. I soldati croati, agli ordini del generale Ante Gotovina, sfogarono sugli abitanti serbi della regione l’odio etnico costruito negli anni dalla politica, e la frustrazione per i passati cinque anni di guerra sanguinaria. Nei giorni successivi sarebbero fuggite dalle loro case oltre 200.000 persone di nazionalità serba e le immagini delle infinite file di trattori e macchine in viaggio avrebbero poi fatto il giro del mondo. Tra quelli che non poterono fuggire, in maggioranza anziani, donne e bambini, le più accreditate ricostruzioni contano tra le 150 e le 450 vittime.
Le case vuote vennero razziate di ogni bene e poi bruciate. Anche per questo la grande maggioranza di chi è partito non è più tornato nel proprio luogo d’origine e ha trovato fortuna in Serbia o altrove. Gli oggetti rubati nelle case finirono in gran parte a Spalato dove nei mesi successivi nacque un vero e proprio mercato di oggetti trafugati e in vendita al miglior offerente.
Il racconto della vicenda in Croazia
La politica a distanza di quasi trent’anni ha ancora un ruolo centrale nel raccontare quei terribili giorni di guerra. Il racconto croato della vicenda si basa su tre elementi principali. Primo, si è trattato di una azione di guerra difensiva poiché, sebbene tatticamente si sia trattato di un’offensiva, lo scopo era riconquistare una parte della Croazia precedentemente occupata.
Secondo, le tante persone che hanno abbandonato le proprie case lo avrebbero fatto esclusivamente in seguito alla richiesta dei leader locali serbi. Tale situazione è realmente accaduta in alcuni casi, e alcune persone in fuga dalla Croazia sono state indirizzate verso il Kosovo che all’epoca era una provincia autonoma della Serbia, a maggioranza albanese. Questi casi sono tuttavia difficilmente generalizzabili ad oltre 200.000 persone in gran parte terrorizzate da ciò che poteva accadergli all’arrivo in città dell’esercito croato.
Terzo elemento preso in considerazione è che l’operazione militare è stata condotta “in modo esemplare”. Riguardo quest”ultima affermazione la stessa politica croata ha cambiato versione nel corso degli anni: quattro anni fa l’allora presidente Kolinda Grabar-Kitarović affermò che l’operazione “era stata una vittoria senza un solo difetto”. Adesso l’opinione pubblica racconta di una operazione “con alcuni piccoli incidenti”.
Il racconto a Belgrado
In Serbia quest’anno il presidente Aleksandar Vučić assieme a Milorad Dodik, presidente dell’entità serbo-bosniaca Republika Srpska, e il patriarca della Chiesa ortodossa serba Porfirije hanno deciso di svolgere la commemorazione per le vittime di Oluja a Prijedor in Bosnia-Erzegovina, ovvero a circa 200 km di distanza da Knin. Il motivo è tanto semplice quanto provocatorio. La città bosniaca è tristemente celebre per i crimini di guerra commessi proprio dai serbi contro civili bosgnacchi e croati. Si stima che le vittime furono oltre tremila civili, tra cui 102 bambini e più di 30 mila persone costrette a lasciare le propria case. È stato insomma scelto di ricordare una tragedia per il popolo serbo in un luogo dove invece una simile tragedia è stata subita da altri.
La vicenda di Knin a Belgrado è raccontata con lo scopo di sottolineare la sofferenza del popolo serbo e il suo eroismo nel resistere a tali vicende avverse. In generale i funzionari serbi tendono spesso a collegare e comparare l’operazione “Oluja” con i massacri e le violenze commesse dal regime degli ustascia croati durante la seconda guerra mondiale. Oluja è dunque considerata parte di un processo decennale di sofferenze patite dai serbi in Croazia.
Il lavoro della società civile tra ricerca, giustizia e memoria
Alcuni recenti miglioramenti nel discorso pubblico sono soprattutto il frutto del lavoro della società civile. Sia in Croazia che in Serbia sono infatti presenti associazioni che denunciano i crimini e le atrocità commesse da entrambe le parti cercando di lasciare la politica fuori dal tavolo di discussione. “Documenta” a Zagabria è una di queste e da anni lavora per scoprire e rendere pubblici i dati reali su quella guerra e in particolare quella operazione. Come ha affermato la storica direttrice Vesna Teršelič: “In Croazia direi non c’è più nessuno che neghi l’esistenza di vittime civili durante e dopo l’operazione, manca però unanimità sul loro numero”. Questo lavoro vuole incoraggiare un processo di analisi costruttiva degli eventi bellici in Croazia con lo scopo anche di costruire una pace sostenibile per il futuro. In Serbia è invece attivo il “Fondzo Humnitarno Pravo” il cui lavoro è simile a quello svolto in Croazia e si suddivide in tre grandi ambiti: ricerca e studio dei documenti, giustizia, ovvero monitoraggio dei processi e sostegno alle vittime, e memoria tramite iniziative pubbliche di commemorazione.
Il ricordo di Oluja è ancora oggi vivo in entrambi i paesi, dove però prevale una narrazione focalizzata sulle colpe altrui e sulle proprie disgrazie. Le vittime sono enfatizzate o nascoste a seconda della convenienza politica e negli ambienti estremisti Oluja è ancora utilizzata per insultare l’altro.
Foto: OBC