Abbiamo visto un film bellissimo, un film contro la guerra. Un film russo, e per questo ancor più interessante oggi. “Va’ e vedi”, di Elem Klimov, parla degli eccidi nazisti in Bielorussia alla fine della Seconda guerra mondiale. Soprattutto, parla di umanità.
Un ragazzo e la guerra
Quando Fljora calpesta le uova, piange. Il nido, tra gli acquitrini e il canneto, è tutto uno sfascio di tuorli ed embrioni. Fljora ha ucciso. È appena un ragazzo. Si è unito ai partigiani per combattere, ma i compagni lo hanno lasciato al campo. Troppo giovane, malgrado quel fucile tedesco di cui va tanto orgoglioso, trovato in una trincea ai margini del bosco, tra le betulle e le grandi paludi. Fljora ha ucciso, devastando il nido. La guerra è più grande di lui, ma tutti ci vanno e anche lui la vuole. È una guerra per difendere casa. Siamo nella Bielorussia del 1943, i nazisti vengono incalzati dalla controffensiva sovietica mentre i partigiani compiono azioni di sabotaggio. Unirsi a loro è diventare uomini, Fljora cerca il suo rito di passaggio malgrado la disperazione della madre che, venuta a conoscenza della decisione del ragazzo, gli mette in mano un’ascia e lo intima a ucciderla, a uccidere le sue sorelle, se è quello che vuole: uccidere. Lui non capisce, ride stranito. Si immagina di fare grandi cose. Così quando poi calpesta quelle uova, piange. La sua giovinezza è finita.
“Va’ e vedi” (Иди и смотри, Idí i smotrí) è una pellicola del 1985 del regista sovietico Elem Klimov, un film in cui iper-realismo e surrealismo si fondono, dove il sovietico è già post-sovietico. Il regista mette in scena i massacri subiti dalla popolazione bielorussa durante l’occupazione tedesca senza però celebrare eroismi, senza parate per la vittoria. La guerra è solo una sconfitta. L’armata rossa non c’è. Al suo posto, c’è un ragazzo. È un film contro ogni guerra, espressione di quell’umanesimo russo che oggi in troppi fingono non esista.
L’incanto impossibile
Nel folto delle betulle, Fljora incontra Glaša, una coetanea sfuggita alla deportazione. Glaša è la pioggia che nutre la terra, è la volontà di vivere malgrado l’orrore, l’arcobaleno, il sesso. Lei è la gioia sfacciata e la pena abissale di diventare grandi. Quando i due si incontrano, una cicogna si avvicina. I primi piani sono insistenti, onirici – impossibile non pensare a L’ora del lupo, di Bergman – mentre un Focke-Wulf da ricognizione tedesco sorvola reiteratamente le loro teste. Poi, il diluvio. Bombe cadono dal cielo e l’artiglieria risponde. Resta solo una precipitosa fuga nel bosco che presto diventa inseguimento d’amore, e Glaša è un’Angelica gattopardesca.
L’incanto non dura. Giunti presso la casa della madre di Fljora, la zuppa è ancora calda sul fornello, ma non c’è nessuno: solo un nugolo di mosche tormenta le bamboline di pezza delle sorelle. Il ragazzo, sconvolto e delirante, si getta nella palude alla ricerca dei suoi familiari. Egli non vede il cumulo dei cadaveri, l’eccidio nazista, e si getta nel putrido, col fango alla gola, mentre Glaša cerca vanamente di farlo riprendere. Appresa la loro morte, tenta il suicidio mettendo la testa nel fango. Un coro di donne in lacrime, caviglie grosse, velo sul capo, batte le mani e si dispera attorno a lui. Sarà però Glaša a tirarlo su per i capelli e stringerlo al petto. Il quadro è mistico, ma il realismo impera. Nel fango, nelle lacrime, nelle espressioni fisse e iconiche. Gli attori non sono professionisti, le facce sono le nostre, come lo sarebbero deformate dall’orrore e dalla disperazione. E quelle facce ci guardano, in primo piano, ferme e silenziose ma non mute, specchio dell’umanità di fronte alla guerra.
L’Apocalisse
Quando, alla fine, Fljora verrà catturato sarà durante un rastrellamento. Klimov voleva mettere in scena l’eccidio di Khatyn, ma non quello operato dai sovietici ai danni degli ufficiali polacchi – peraltro all’epoca ancora negato dalle autorità russe – bensì quello di un villaggio quasi omonimo che, il 22 marzo 1943, fu teatro di un massacro in cui la quasi totalità della popolazione fu uccisa dai nazisti del battaglione Schutzmannschaft che si stava ritirando incalzato dai partigiani sovietici. Il battaglione era composto principalmente da collaborazionisti ucraini e da un reparto di Waffen-SS. Il film mostra però unicamente soldati tedeschi i quali, ubriachi e spietati, catturano gli uomini abili al lavoro, violentano le ragazze, rinchiudono gli anziani, le donne ed i bambini in un fienile e vi danno fuoco. Ancora una volta – come ogni volta che è in pericolo – Fljora vede l’aereo da ricognizione che vola sulla sua testa poi sviene mentre assiste terrorizzato ed impotente alla scena, scampando così al rastrellamento, creduto morto.
La colonna sonora, tra jodel e musica classica – il Danubio Blu di Strauss – esprime lo straniamento, l’allucinazione, mentre le fiamme divampano fra le grida. Una fiera del sangue, uno stupro di tutto. Un circo di bestie, di facce deformi e inebetite, ferine e terribilmente umane. Perché Klimov non disumanizza il nemico. Il nemico è umano, come lo è il male che compie. Le scene sono tuttavia apocalittiche, come lo è il titolo del film, tratto dsll’Apocalisse di Giovanni. Nel testo biblico la frase richiama la salvezza che deriva dalla conoscenza, ma nella pellicola di Klimov non c’è salvezza. La conoscenza del mondo è per Fljora conoscenza del male.
Riavvolgere la storia
Alla fine c’è però una giustizia. Fljora viene raccolto dai partigiani, ritrova il suo fucile, ma non è più lui: profonde rughe gli solcano il viso, bianchi i suoi giovani capelli. Tra i feriti vede una ragazza che rievoca la figura di Glaša, ripetutamente violentata ha un flauto in bocca che soffia a ogni ansimo. È il rovesciamento di Glaša, è la morte, la fine di ogni speranza, la gioventù tradita, interrotta. Quando i tedeschi in ritirata vengono raggiunti, catturati e fucilati, Fljora spara per la prima volta. Spara a Hitler, a un suo ritratto. E a ogni colpo vengono mostrate le immagini dei cinegiornali con vari momenti della vita del dittatore tedesco. Le immagini si riavvolgono all’indietro, fino quella che mostra un Hitler neonato in braccio alla madre. A quell’immagine Fljora non spara. E piange. Piange ritrovando così l’umanità che l’orrore della guerra gli stava strappando via. Piange, e le note della Lacrimosa di Mozart scendono su di lui – e su di noi, liberandoci dal male.
Contro la guerra
Klimov dovette attendere otto anni prima di ottenere il permesso per girare il film. Il Comitato Statale per la Cinematografia (Goskino) non accettò la sceneggiatura, considerandola troppo realistica, definendola propaganda della ‘”estetica della sporcizia” e del “naturalismo”. L’estetica della sporcizia, del fango, del sangue, senza un solo eroe, senza liturgie o retoriche patriottiche. Solo la nuda, sporca guerra. Durante una discussione a seguito del film, un anziano tedesco si alzò e disse: “Sono un soldato della Wehrmacht. Anzi, ufficiale della Wehrmacht. Ho passato tutta la Polonia, la Bielorussia, ho raggiunto l’Ucraina. Testimonio che tutto ciò che viene detto in questo film è vero. E la cosa più spaventosa ed imbarazzante per me è che questo film vedranno i miei figli e nipoti.”
Non è un film leggero, non è breve. I dialoghi sono rari, le immagini durano. Tuttavia, in un momento storico in cui l’intrattenimento viene elevato a cultura; piccole banalità si ammantano di “profondi significati”; facili progressismi, dal buonsenso un po’ stucchevole, vengono proclamati come rivoluzionari; ebbene in un momento così vale forse la pena di stare scomodi, di mandar giù di traverso, poiché si tratta certo di una pellicola difficile – poetica, sarebbe meglio dire – la cui visione assume però ulteriori significati se pensiamo che una guerra vera insanguina di nuovo quelle stesse terre, con protagonisti simili e ruoli diversi. Un film contro la guerra, insomma, ma senza retorica, per riconoscere l’arte e non confonderla con il pop. Per tutti gli altri, barbenhaimer and soda.