Cosa succede se si mescolano Kung Fu, i Black Sabbath e l’occupazione sovietica dell’Estonia? La risposta è The Invisible Fight di Rainer Sarnet, film estone in concorso a Locarno.
Già dalla prima scena i riferimenti formali sono ben chiari: tre personaggi asiatici saltano da albero ad albero, come i protagonisti de La Tigre ed il Dragone di Ang Lee, il film che ha reso popolare il genere wuxia in occidente. Se il film di Ang Lee aveva un tono solenne, la scena d’apertura di The Invisible Fight è l’opposto, con una colonna sonora black metal di sottofondo. Rainer Sarnet infatti in realtà guarda al linguaggio cinematografico dei film d’azione più popolari del cinema di Hong Kong degli anni ’70, quelli intrisi di sparatorie, gangster ed inseguimenti, da cui eredita il montaggio ed il ritmo. ed al contempo rovescia i luoghi comuni dei film di arti marziali storici: per esempio il monastero buddhista in cui il protagonista apprende il Kung Fu è sostituito da un monastero ortodosso. La tentazione è di descrivere il film come “tarantiniano”, derivante di un’atteggiamento parodistico ispirato alle opere di Quentin Tarantino, che spesso si basano su riferimenti al cinema asiatico, ma The Invisible Fight opera un citazionismo diretto, senza mediatori di sorta, e spesso compie scelte indipendenti in merito al confronto con il genere di riferimento, tra cui il già menzionato rovesciamento dei clichés.
Se nella forma il lungometraggio guarda all’estremo oriente, nel contenuto si lega profondamente all’europa orientale. Si tratta di un’opera che cerca la resa dei conti con la difficile eredità dell’Unione Sovietica nei paesi baltici, e che visualizza nelle arti marziali un conflitto ben più nascosto tra spiritualità e secolarismo, con la persecuzione del clero da parte del regime. Rafael, il protagonista, è in qualche modo una personificazione della coscienza estone. Lui cerca di ignorare e dimenticare il passato sovietico (nella storia, il presente), tenta di unirsi ai monaci ma non ne comprende appieno la Fede. L’unica risposta alla ferita della Guerra Fredda è l’assurdo portato all’estremo che costella l’intero film, spesso arrivando ad un demenziale esagerato, che potrebbe non essere apprezzato da tutto il pubblico, ma che in qualche modo ricorda – pur a debita distanza e con un tono che non può essere più diverso – la comicità di registi scandinavi come Roy Andersson o Aki Kaurismaki.
The Invisible Fight è un film che dimostra ambizione e una visione propria, anche se non potrà raccogliere il consenso di tutti per la propria natura semi-demenziale. Certamente è uno dei film più squisitamente strampalati del festival di Locarno di quest’anno.