STORIA: Il massacro di Podhum e le ricorrenze scomode

Dei massacri italiani compiuti in Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale, quello più emblematico avvenne a Podhum il 12 luglio 1942, assurto a simbolo della ferocia e della crudeltà delle truppe del Regio esercito, in netto contrasto con il mito degli italiani “brava gente” che circolava all’epoca, e oltre.

Piccolo paese poco lontano da Fiume, in Croazia, Podhum viene ricordata per l’eccidio avvenuto per mano degli occupanti italiani durante la Seconda guerra mondiale. Poco ricordato – per non dire insabbiato – dalla narrazione storica nazionale, in virtù del tentativo mai sopito di rimpolpare il mito degli italiani brava gente“, il crimine ha trovato una concretizzazione architettonica e storica nel monumento eretto nel 1970 per celebrarne le vittime, a perenne monito di una ricorrenza che, in Italia, non ricorre. 

Podhum nella Seconda guerra mondiale

Nel 1942, dopo l’occupazione e la spartizione della Jugoslavia da parte delle potenze dell’asse, Podhum faceva parte della provincia del Carnaro (capoluogo Fiume) istituita dal governo fascista dopo la Guerra d’aprile del 1941 con la quale Hitler – e l’Italia alleata – punì il “tradimento” jugoslavo nelle prime fasi della guerra. 

La politica nazifascista verso le terre balcaniche occupate fu volta alla assimilazione e alla snazionalizzazione delle popolazioni locali, imponendo leggi e norme altamente restrittive e coercitive. Una snazionalizzazione che, come scrive Davide Conti nella sua opera L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1941-1943) rappresentò “l’elemento strategico attorno al quale il fascismo cercò di sviluppare la propria azione dei Balcani”. Insomma, la snazionalizzazione dei territori slavi poteva realizzarsi solo a seguito della deportazione delle popolazioni autoctone e del loro rimpiazzo con cittadini italiani.

Per contenere i deportati vennero istituiti campi di concentramento sia in Jugoslavia (tristemente noto quello di Staro Sajmište, presso Belgrado, dove circa 10.000 ebrei furono eliminati con l’impiego di un gaswagen) sia in Italia, nei quali vennero rinchiusi  complessivamente circa 500.000 prigionieri. I sopravvissuti alle deportazioni si organizzarono per resistere agli occupanti nazifascisti e, nel marzo 1941, il Partito comunista jugoslavo creò il Fronte di Liberazione, che operò contro tedeschi e italiani in imboscate, sabotaggi, attentati, infliggendo loro ingenti perdite di uomini.

La reazione dei tedeschi fu rapida e spietata: dall’aprile 1941 iniziarono rastrellamenti e deportazioni, saccheggi, decimazioni e stupri, confische di terreni, esecuzioni di massa e villaggi sventrati. Anche gli italiani non stettero a guardare: dall’aprile 1941 al settembre 1943, i soldati italiani devastarono, distrussero e compirono massacri in oltre 250 villaggi, fucilando oltre 200.000 civili e 26.500 partigiani, deportando circa 100.000 persone nei vari campi di concentramento e devastando oltre 400 villaggi.

La campagna di Jugoslavia fu esaltata dalla propaganda fascista italiana come una scampagnata in terra slava dove il Regio esercito poté dar sfoggio della propria “maestria e superiorità”, o come traspone Eric Gobetti nel suo Alleati del nemico, “una marcia per le dinariche che resterà nella storia dei fatti di guerra come un capolavoro di rapidità e precisione”.

Il massacro 

Di questi massacri italiani, quello di Podhum del 12 luglio 1942 fu sicuramente il più emblematico, tanto da assurgere a simbolo della ferocia e della crudeltà delle truppe italiane. Quelle stesse truppe i cui soldati si autoproclamavano “brava gente”, ma che gli jugoslavi non esitavano a definire palikuci (bruciacase). Alle ore 8 di domenica 12 luglio, 250 militari del XI Corpo d’Armata del generale Mario Robotti (insieme ad alcuni elementi del 2° battaglione Squadristi emiliani e fiumani, ma anche cetnici e carabinieri) con cinque carri armati entrarono a Podhum stipandovi tutta la popolazione: nel corso del successivo rastrellamento casa per casa, vennero catturati tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni e condotti in una cava lì vicino, dove vennero immediatamente trucidati a colpi di mitragliatrice. I loro corpi vennero poi gettati all’interno della cava.

Il paese fu razziato, centinaia di edifici furono dati alle fiamme, e gli abitanti sopravvissuti vennero caricati su appositi autocarri e inviati a Fiume. Da qui furono mandati, per nave, al Campo “Kampor” dell’isola di Arbe o per ferrovia, ai campi di concentramento di Gonars in Friuli e delle Fraschette di Alatri nel Lazio. A Podhum, quando smise di bruciare, non era rimasto più nulla.

Podhum oggi

Oggi, nel paese ricostruito di Podhum, si trovano, a ricordo della strage, un Parco delle Rimembranze, dedicato al santo Maximilian Kolbe, martire polacco fatto morire di fame dai tedeschi in una cella del campo di sterminio di Auschwitz nel 1941. Esso è circondato da un muro che riporta, incisi su targhe di bronzo, i nomi dei 108 fucilati, nomi ripetuti anche sui marmi delle loro tombe situate nel giardino del Parco, al centro del quale si erge lo spomenik a forma di fiore, sui cui petali sono incisi i nomi dei caduti. La strage viene ancora oggi ricordata pubblicamente dalle autorità croate con una cerimonia  il 12 luglio di ogni anno.

L’episodio di Podhum è solo uno dei tanti eventi che riguardano i crimini italiani commessi durante l’occupazione dei Balcani dal 1941 al 1943, crimini spesso rimossi, evitati o minimizzati da quella narrativa storica che, a volte, è ancora intrappolata nel mito dell’autocelebrazione del soldato italiano come occupatore bonario e tutto sommato innocuo, geneticamente incapace di fare del male. 

Foto: spomenikdatabase.org

Chi è Paolo Garatti

Storico e filologo, classe 1983, vive in provincia di Brescia. Grande appassionato di Storia balcanica contemporanea, ha vissuto per qualche periodo tra Sarajevo e Belgrado dove ha scritto le sue tesi di laurea. Viaggiatore solitario e amante dei treni, esplora l'Est principalmente su rotaia

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