Ci eravamo lasciati alle porte dell’imposizione del velo in Iran e della generale problematizzazione dell’abito come parte integrante della politica iraniana. A un anno dalla morte di Mahsa Jina Amini e dall’inizio delle proteste in tutto il Paese, ecco l’ultima parte del viaggio nella storia dell’uso dell’ hijab in Iran.
Era della Repubblica islamica
Negli anni ’70 l’hijab iniziò a rappresentare il rifiuto del dominio Pahlavi e la resistenza alla loro forzata occidentalizzazione. L’uso dell’hijab da parte delle donne istruite della classe media diventò un simbolo politico per molte donne lavoratrici della classe media, un’indicazione di opposizione al regime. Non solo il semplice hijab, ma anche il tradizionale chador nero sciita divenne popolare tra l’opposizione della classe media come simbolo di difesa rivoluzionaria per i meno abbienti, come protesta contro il trattamento delle donne come oggetti sessuali, per mostrare solidarietà con le donne conservatrici che lo indossavano abitualmente e come rifiuto nazionalista all’influenza straniera.
L’idea che le donne avessero “perso l’onore” durante l’era Pahlavi era molto diffusa e gli oppositori anti-Shah denunciavano le “bambole borghesi” eccessivamente truccate (annunciatori televisivi, cantanti, donne di classe alta nelle varie professioni) dell’era Pahlavi. Come in Algeria, gli islamisti in Iran sentivano che la “genuina identità culturale iraniana” era stata distorta dall’occidentalizzazione o da ciò che chiamavano Gharbzadegi (un termine coniato dallo scrittore Jalal Al-e-Ahmad che letteralmente significa “colpito dall’Occidente” o “intossicato dall’Occidente”). Molti analisti iraniani osservavano che il crescente numero di donne istruite e impiegate “terrorizzava” gli uomini che arrivavano a considerare la donna moderna come la manifestazione dell’occidentalizzazione e della cultura imperialista e una minaccia per la loro stessa virilità. Gli islamisti hanno proiettato l’immagine della nobile, militante e altruista Fatemeh, figlia di Maometto, precedentemente resa popolare dal sociologo islamico radicale Ali Shariati come il modello più appropriato per la nuova femminilità iraniana.
Alla rivoluzione iraniana contro lo Shah, che si svolse tra l’inizio del 1977 e il febbraio 1979, si unirono innumerevoli donne. Come altri gruppi sociali, le loro ragioni per opporsi allo Shah erano varie: privazione economica, repressione politica, identificazione con l’islam politico, aspirazioni per un futuro socialista. Le grandi manifestazioni di piazza includevano enormi contingenti di donne che indossavano il velo come simbolo di opposizione alla decadenza borghese od occidentalizzata dei Pahlavi. Molte donne che indossavano il velo come simbolo di protesta non si aspettavano però che l’hijab diventasse obbligatorio. Così, quando nel febbraio 1979 furono fatte le prime chiamate per far rispettare l’hijab e quando Khomeini disse di preferire vedere le donne in modesti abiti islamici, molte donne si allarmarono. In un’intervista con la giornalista italiana Oriana Fallaci, Khomeini descrive così le donne “civettuole”:
“Le donne che hanno fatto la rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come Lei (Oriana Fallaci) che se ne vanno in giro tutte scoperte, trascinandosi dietro un codazzo di uomini. Le civette che si truccano ed escono per strada, mostrando il collo, i capelli, le forme, non hanno combattuto lo Shah. Non hanno mai fatto nulla di buono quelle. Non sanno mai rendersi utili: né socialmente, né politicamente, né professionalmente. E questo perché, scoprendosi, distraggono gli uomini e li turbano. Poi distraggono e turbano anche le altre donne.”
A seguito, proteste e sit-in sono stati guidati da donne della classe media di sinistra e liberali, la maggior parte delle quali membri di organizzazioni politiche o organizzazioni femminili di recente formazione. Quasi subito dopo la rivoluzione, a partire dall’8 marzo 1979, migliaia di donne iniziarono a protestare contro l’hijab obbligatorio. Le proteste durarono sei giorni, fino al 14 marzo. Le proteste portarono alla revoca temporanea del velo obbligatorio e il governo assicurò che la dichiarazione di Khomeini fosse solo una “raccomandazione”.
Con l’inizio dell’invasione irachena, la sconfitta della sinistra e dei liberali nel 1980 e la loro eliminazione dal terreno politico nel 1981, lo Stato islamico riuscì a rendere obbligatorio il velo e a farlo rispettare rigorosamente. Le donne iraniane erano profondamente divise sulla rivoluzione, e l’islamizzazione dell’Iran ha avuto numerose sostenitrici femminili, provenienti principalmente dalla classe medio-bassa, che era anche la base della nuova leadership islamista.
Nel luglio 1981 fu introdotto un editto che imponeva il velo obbligatorio in pubblico (anche per i non musulmani): le donne e le ragazze di età superiore ai 9 anni dovevano coprirsi i capelli e nascondere la forma del proprio corpo sotto abiti lunghi e larghi. A questa seguì nel 1983 una legge islamica sulla punizione, che ha introdotto l’imposizione di 74 frustate alle donne che non si coprivano i capelli in pubblico e dal 1995, anche le donne senza velo possono essere incarcerate fino a 60 giorni. Ai sensi dell’articolo 638 del codice penale iraniano, libro 5, le donne che appaiono in pubblico senza hijab islamico possono essere condannate da dieci giorni a due mesi di reclusione o multate da cinquantamila a cinquecentomila rial adeguati all’inflazione.
Le proteste contro l’hijab obbligatorio
Facciamo un salto avanti, al maggio 2017: “My Stealthy Freedom”, un movimento online iraniano che sosteneva la libertà di scelta delle donne, crea il movimento dei Mercoledì Bianchi, una campagna che invitava uomini e donne a indossare veli, sciarpe o braccialetti bianchi per mostrare la loro opposizione all’obbligatorietà del velo. La campagna ha portato le donne iraniane (e non solo) a pubblicare sui social media foto e video di se stesse indossando capi di abbigliamento di colore bianco. Il 27 dicembre 2017, durante una manifestazione del mercoledì bianco, Vida Movahed, nota anche come “La ragazza della Via Enghelab”, viene arrestata e un suo video in cui sventola silenziosamente il suo velo bianco su un bastoncino, in via Enqelab (che significa, guarda caso, rivoluzione!) a Teheran, è diventato virale sui social media. Nelle settimane successive, diverse persone hanno rievocato l’esibizione pubblica di Movahed di rimuovere i loro hijab e a sventolarli in aria. Il 1 febbraio 2018, la polizia iraniana ha rilasciato una dichiarazione affermando di aver arrestato 29 persone, per lo più donne, per essersi tolte il velo. Circa tre settimane dopo, la polizia iraniana ha affermato che qualsiasi donna vista a protestare contro il codice del velo obbligatorio sarebbe stata accusata di “incitamento alla corruzione e alla prostituzione”, che comporta una pena massima di 10 anni di carcere considerevolmente più severe delle normali condanne di due mesi di reclusione o fino a 74 frustate. In seguito all’annuncio, diverse donne hanno riferito di aver subito abusi fisici da parte della polizia in seguito al loro arresto, alcune condannate a più anni di carcere.
Nel 2021 a seguito dell’elezione dell’estremista Ebrahim Raisi come presidente dell’Iran l’applicazione delle norme su hijab è stata intensificata. Nel settembre 2022, nuove e più intense proteste sono seguite all’uccisione di Mahsa Amini, mentre era in custodia della polizia morale dopo essere stata arrestata per “hijab improprio”. Dall’aprile 2023 le proteste sono diminuite grazie a una violenta repressione, arresti di massa e diverse esecuzioni, ma nello stesso tempo, anche l’obbedienza al hijab obbligatorio da parte delle donne è diminuita notevolmente, nonostante le dure sanzioni.
Per loro la notte è ancora giovane, i mari ancora burrascosi e i soccorsi non si sono ancora presentati, oppure come diceva Hafez grande poeta iraniano del trecento:
Ma viaggiando leggeri, cosa ne possono sapere questi amanti della terraferma,
La notte nera, la nostra paura delle onde e l’orribile vortice?
foto: The Guardian