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TURCHIA: Viaggio al memoriale dei martiri del 15 luglio

Sono trascorsi 7 anni dalla notte che avrebbe potuto cambiare le sorti della Turchia moderna, o che le ha effettivamente stravolte per sempre se si segue la pista dei complottisti secondo cui l’ultimo tentato golpe della sua storia recente, preceduto da altri 4 a distanza di circa un decennio l’uno dall’altro, dal 1960 in poi, sia stato ideato dallo stesso presidente Recep Tayyip Erdoğan e non dal principale sospettato, l’acerrimo nemico Fethullah Gülen. Il racconto di quella manciata di ore resta assai controverso quanto cruciale agli occhi di chi fa coincidere il fallimento del colpo di stato con un trionfo assoluto della forza della nazione e della democrazia: non a caso nel 2020 Erdoğan paragonò il 15 luglio 2016 ad avvenimenti imprescindibili come la battaglia di Manzikert del 1071 o, addirittura, l’assedio di Costantinopoli del 1453.

Il ponte sul Bosforo diventa il ponte dei martiri

Il 15 luglio del 2016 intorno alle 22 il ponte sul Bosforo (Boğaziçi Köprüsü), il primo che collega il lato asiatico della città di Istanbul a quello europeo, venne occupato dai carri armati dell’esercito turco impedendo il flusso incessante di mezzi che lo attraversano. Da quella notte in poi, questa arteria sospesa sull’acqua cambierà il suo nome diventando il ponte dei martiri del 15 luglio (15 Temmüz Şehitler Köprüsü) ed è proprio lì, sulle colline adiacenti, che adesso si trova il mausoleo-memoriale di quegli stessi martiri, 265 civili morti in tutto il paese. Accedendovi dall’alto, arrivandoci in auto o in taxi dopo una lunga serie di curve, la prima cosa che si nota è senza dubbio la vista mozzafiato che si può godere dal parco costruito ad hoc. Addentrandosi, però, l’atmosfera si fa subito più cupa: si imbocca un lungo viale di cipressi che ricorda quello dei cimiteri europei: ne è stato piantato uno per ogni caduto, quasi tutti uomini, quasi tutti sotto i 30 anni. Un qr code sulla placca in bronzo posta alla base di ogni albero permette di accedere a una pagina internet con una breve biografia: tra tutti c’è Engin Tilbeç di soli 15 anni. Figlio di una famiglia povera, madre disoccupata e padre disabile, lavorava già in un’azienda tessile pur di mantenerli. Viveva nel distretto di Sultangazi, estrema periferia ovest di Istanbul, e la notte del 15 luglio è sceso in strada “per difendere il suo Paese”. Ne ha fatto ritorno da cadavere irriconoscibile se non dai suoi vestiti, eppure “protagonista di un’epopea indimenticabile”, così cita il testo che accompagna la sua memoria.

Inevitabile soffermarsi sul concetto di martirio in sé strettamente collegato alla sfera religiosa islamica. Per i credenti musulmani, i martiri sono coloro che sacrificano la propria vita per dimostrare la profondità della loro fede in Allah e che, di conseguenza, saranno portati in paradiso. Nel contesto turco, però, c’è una vera e propria cultura del martirio e il termine martire (şehit) ha assunto una connotazione nazionalista e patriottica che indica il sacrificio della propria vita terrena per il proprio Paese. Il martirio è diventato, quindi, una categoria ampia che comprende non solo i soldati e gli agenti di polizia che hanno perso la vita nelle lotte armate, ma anche i dipendenti pubblici (insegnanti, medici, ecc.) uccisi mentre erano in servizio. Le narrazioni della Guerra d’Indipendenza, che si è conclusa con l’istituzione della Repubblica di Turchia, elogiano i martiri e glorificano il concetto di martirio, ricordando a ogni cittadino turco che senza i sacrifici degli antenati non ci sarebbe la Turchia di oggi, come riporta lo stesso inno nazionale: “Non pensare al suolo che calpesti come semplice terra, pensa alle migliaia che vi giacciono senza neppure un sudario. Sei un nobile figlio di martiri, non disonorare, non fare del male ai tuoi antenati!“. Ebbene, il memoriale dei martiri del 15 luglio è la quintessenza di tutto questo.

All’interno del memoriale

Il lungo viale dei cipressi scende giù verso il ponte e verso quella che sembra una cupola traforata, un mausoleo islamico dove un altoparlante sprigiona un altrettanto incessante canto di preghiera, e dove i 265 nomi sono elencati uno sotto l’altro, incisi nel marmo.

Alle sue spalle si trova, finalmente, l’ingresso del memoriale, un vero e proprio museo dedicato a quella notte.

Lo stabile in penombra è semivuoto, le poche persone in visita sono famiglie con bambini. Bambini che non hanno vissuto in prima persona quella notte o che non possono ricordarla e che qui apprendono una sola versione della storia, quella che la propaganda vuole raccontargli. La prima frase che si legge all’ingresso, in turco, arabo e inglese lo dice a chiare lettere: “quella che vedrai è la tua storia”. Alla sua destra, la carcassa di un veicolo distrutto e una lunga scalinata ricoperta di scarpe, quelle dei civili che hanno perso la vita. La cronologia degli eventi è scandita in diverse sezioni video che raccontano prima il caos dell’occupazione degli spazi cittadini, poi l’attacco degli F-16 che rompevano il muro del suono, le esplosioni ad Ankara. E ancora, l’intervento del presidente Erdoğan in diretta tv attraverso FaceTime per incitare i cittadini a scendere in strada per difendere la democrazia, come chiede di fare anche ai muezzin dai minareti di tutte le moschee, fino allo sventato pericolo e il fallimento del tentato golpe all’alba del 16 luglio. Clip montate con un ritmo incalzante e accompagnate da una musica trionfale interrotta solo dagli estratti audio delle urla della gente e delle parole del presidente. Parte degli oggetti intravisti nelle testimonianze video sono al piano inferiore, sotto teca: le divise dei militari, le munizioni AK-47, gli effetti personali dei civili, l’i-phone della giornalista di CNN Turk Hande Firat, quello attraverso cui il presidente Erdoğan ha mandato il messaggio alla nazione di cui sopra. Di nuovo gli stessi momenti immortalati da gigantesche foto in bianco e nero, di nuovo i 256 nomi elencati sulle pareti e le loro storie raccolte in un touchpad consultabile. La lunga sfilza di volti conferma che le donne coinvolte sono una piccolissima minoranza: Sevda Güngor, 27 anni, poliziotta; Turkan Türkmen Tekin, scesa in strada in pantofole per andare verso l’ex aeroporto di Atatürk, anch’esso occupato dai militari; Yildiz Gürsoy, che serviva del çay ed è morta per le ferite d’arma da fuoco una settimana dopo il golpe, Zeynep Sağur, 37 anni, Seher Yaşar, 24 anni, Kübra Doğanay, 23 anni, Demet Sezen, 31 anni, Cennet Yiğit, 23 anni, tutte commissari di polizia in servizio al dipartimento operazioni speciali di Gölbaşı, ad Ankara. Ayşe Aykaç, 44 anni, casalinga, morta proprio sull’ ex ponte sul Bosforo dopo il richiamo del presidente Erdoğan.

Una storia al contrario

E se finora la visita non fosse stata già abbastanza straniante, l’ultima parte della mostra fornisce una prospettiva inedita sul corso della storia mondiale, non solo quella turca. Un excursus di tutti gli eventi che, secondo la narrativa proposta, come per il golpe del 15 luglio 2016 invece fortunatamente sventato, sono riusciti a imporre una certa egemonia a discapito dell’umanità stessa. Dalla conquista dell’America e i soprusi sui nativi americani al colonialismo, all’occupazione dei Paesi mediorientali da parte di forze occidentali, in particolare degli Stati Uniti: tutto viene definito come un “gioco sporco” da cui difendersi. Il messaggio è: le fondamenta degli odierni colpi di stato si reggono sulle attività coloniali avviate nel quindicesimo secolo. “Giganti potenti che vogliono sfruttare una società o un paese a discapito dei più deboli” così che la storia che oggi conosciamo sia stata scritta solo dai vincitori e mai dai vinti, mentre in occasione del tentato golpe del 2016 in Turchia i vinti sono diventati vincitori. Non manca, infatti, una carrellata dei più famosi golpe della storia mondiale e di quelli, invece, che hanno interessato la Turchia fino ad oggi. Tra i leader elencati contro lo sfruttamento e le ingiustizie, Mustafa Kemal Atatürk si affianca a Mahatma Ghandi, Che Guevara, Aliya Izzetbegovic, Martin Luther King e Nelson Mandela.

Rovesciando la medaglia, però, il presidente Recep Tayyip Erdoğan definì il golpe stesso “un regalo di Dio” proclamando uno stato d’emergenza durato anni che ha poi portato al referendum costituzionale del 2017 proprio in virtù della protezione ossessiva di una democrazia paradossalmente sospesa, diventata sempre più autocratica. I numeri parlano da sé: in questi anni, più di 100 mila funzionari pubblici sono stati allontanati dal loro incarico, e decine di migliaia di loro sono stati arrestati. Di 289 processi in corso, sono stati condannati 4890 imputati di cui 3000 all’ergastolo. Come mantenere una parvenza di oggettività per un evento su cui, a distanza di sempre più tempo, si sa sempre meno?

Foto originali dell’autore

Per saperne di più, ascolta il primo episodio di Cose Turche Podcast, scritto e prodotto dall’autore

Ascolta “1 – La notte del tentato colpo di stato” su Spreaker.

Chi è Eleonora Masi

Classe 1990, una laurea in Relazioni Internazionali ed esperienze in Norvegia, Germania, ma soprattutto Turchia, di cui si occupa dal 2015. Oltre a coordinare la redazione dell'area del Vicino Oriente per East Journal svolge il ruolo di desk per The Bottom Up mag. Ha ideato e prodotto il podcast "Cose Turche" che racconta gli ultimi 10 anni della Turchia dal punto di vista dei millennial che li hanno vissuti sulla loro pelle.

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