Lo scorso martedì 4 aprile, Ali Khamenei ha difeso l’esistenza della legge sul hijab obbligatorio in Iran in un incontro con i capi delle forze dell’ordine, alcuni funzionari e un gruppo di alti dirigenti di varie istituzioni e rappresentanti del parlamento. Secondo lui togliere l’hijab è “haram” (proibito) non solo per la Shari’a, ma anche per la politica e che sia una questione di buon senso. Nel frattempo Ahmad Reza Radan, il Comandante in capo della forza disciplinare della Repubblica Islamica, ha ribadito ancora una volta l’inizio di un nuovo ciclo di scontri contro le donne che non indossano adeguatamente l’hijab obbligatorio dopo le proteste antigovernative dell’ultimo anno. Contemporaneamente, dopo che un certo numero di avvocati e giuristi ha definito illegali le azioni contro le donne, anche Asghar Nazemzadeh Qomi, uno dei docenti del corso di Fiqh al seminario di Qom, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo alle autorità di astenersi da “azioni arbitrarie” e di trattare e imporre l’esclusione sociale alle donne che non indossano l’hijab obbligatorio.
Un percorso storico
Sebbene non ci sia nulla di intrinsecamente sessuale nei capelli femminili, la maggior parte delle società nel corso della storia gli ha assegnato un simbolismo sessuale, lasciando che determinasse il potere di una donna sugli uomini. In alcune culture, i capelli “incontrollati” erano associati a donne non convenzionali e disinibite ed erano disapprovati. Tradizionalmente, ad esclusione delle streghe in Europa con i loro “pericolosi capelli al vento”, in Giappone una donna perbene ha sempre indossato un’acconciatura elaborata e “controllata”. In India, le teste delle vedove venivano rasate per desessualizzarle e frenare il loro fascino. Il taglio dei capelli è stato inoltre utilizzato per punire le donne che non rispettavano le norme sociali e i codici comportamentali. Nella Francia di Vichy, ad esempio, le teste delle donne che avevano preso i soldati tedeschi come amanti venivano rasate. Al centro c’era la necessità di controllare il potere sessuale femminile e, a sua volta, lo sguardo maschile. Quindi la responsabilità si è spostata dagli incontrollabili appetiti sessuali degli uomini alle donne, che dovevano diminuire il proprio fascino sessuale per proteggerli (e non proteggersi) e di conseguenza preservare l’intera società.
La situazione iraniana
In Iran, l’immagine e l’identità femminile sono state sempre altamente politicizzate. I regimi politici iraniani passati e presenti hanno costruito un’immagine ideale di donna che fosse congruente alla loro ideologia. Nella costruzione di nuove icone, ogni regime ha “incoraggiato” determinati comportamenti attraverso misure legali e forza fisica per imporre la propria volontà politica. In Iran, il significato sociale del velo è contestato e continua a essere oggetto di disaccordi.
Gli iraniani credono comunemente che l’uso del velo sia iniziato con la conquista islamica dell’Iran nel settimo secolo d.C. Il velo, tuttavia, risale all’antichità ed era già usato durante le dinastie Achemenidi (550–330 a.C.) e Sasanidi (224–651 d.C.) sebbene avesse un significato sociale diverso. Come nelle antiche culture mesopotamiche e mediterranee, il velo era uno status symbol di cui godevano le donne di ceto elevato che conducevano vite appartate e indossavano il velo in pubblico per proteggersi dallo sguardo impuro “dei comuni mortali”. Alle donne comuni era persino proibito indossare il velo. Si ritiene che il primo riferimento noto al velo sia in un testo giuridico assiro del XIII secolo a.C.. Il velo significava distinzione di classe e la legge assira proibiva alle contadine, alle schiave e alle prostitute di indossare il velo e i trasgressori venivano puniti. Le donne che volevano scegliere un’identità diversa da quella loro assegnata dalle autorità venivano “disciplinate”.
Islamizzazione e invasioni turco-mongole
Il velo ha impiegato molto tempo per istituzionalizzarsi in Iran e per la maggior parte è rimasto una pratica urbana. Inoltre, le tribù turche migrate in Iran tra il X e il XVI secolo conducevano vite nomadi e pastorali, incompatibili con il velo. Le loro donne hanno sempre avuto un ruolo attivo nella produzione sociale e il velo limitava le loro attività e i loro movimenti. I dipinti indigeni mostrano che le donne tribali non indossavano il velo: i viaggiatori italiani in Iran, nel quindicesimo e il sedicesimo secolo, scrissero che le donne fossero “scandalosamente esposte”. Ad esempio Giosafat Barbaro, diplomatico e viaggiatore veneziano (1413–1494) descrive così la società iraniana dell’epoca: “Degli abitanti imparerai cose meravigliose. Gli uomini sono generalmente più alti che nel nostro paese, sono molto audaci, robusti nell’aspetto e di buon umore. Le donne sono basse in proporzione agli uomini e bianche come la neve. Il loro vestito è lo stesso di sempre, il costume persiano, lo portano aperto sul petto, mostrando i loro seni e persino i loro corpi, il cui candore ricorda l’avorio. Tutte le donne persiane, e in particolare in Tauris (Tabriz), sono sfrenate e indossano abiti da uomo. Queste sono vesti di seta, alcune di stoffa cremisi, stoffa di lana, velluto e stoffa d’oro, secondo la condizione di chi le indossa.” Circa cent’anni dopo, Vincentio Alessandri, un altro diplomatico e viaggiatore veneziano fece osservazioni molto simili.
Dinastia Safavide (1501-1736)
I Safavidi che fecero dello sciismo la religione di stato iraniana, arrivarono sostenuti dal sostegno militare delle tribù nomadi turche, e le prime miniature Safavidi sono piene di donne senza velo. L’Iran del sedicesimo secolo può essere definito un’età vivace contrassegnata da una cultura darvish eclettica e tollerante, influenzata dallo sciamanismo, dal buddismo e dall’agnosticismo introdotti dalle ondate di invasione dei popoli nomadi turco-mongoli, che aveva permesso matrimoni allietati da musica e danza, aveva tollerato raduni misti e aveva permesso alle donne di uscire da sole e passeggiare nei giardini e nei bazar senza i loro parenti maschi. L’adozione di una forma di successione patrilineare da parte dei Safavidi e un costante aumento dell’influenza dell’ortodossia religiosa nel corso del XVII secolo virarono verso un’emarginazione delle donne. Questo processo raggiunse una fase critica con il mandato dell’intransigente religioso Mohammad Baqir Majlesi come Sheikh ul-Islam (Capo religioso) della capitale Isfahan tra il 1687 e il 1699, culminando durante l’incombenza di Shah Soltan Hossein che è noto per aver governato sotto l’incantesimo di Majlesi. Il momento decisivo fu l’intronizzazione dello Scià nell’estate del 1694, una cerimonia in cui Majlesi officiò cingendo lo Scià con la spada della legittimità. Alla domanda su cosa desiderasse in compenso, Majlesi ha chiesto restrizioni su vari tipi di comportamento non islamico, compreso il divieto per le donne di uscire con abiti impropri e senza la presenza dei loro mariti.
Da questo momento in poi, la prostituzione fu vietata, il velo fu imposto e la vista delle donne che passeggiavano nei giardini apparteneva al settimo cerchio dell’inferno.
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