L’autoritarismo è parte del carattere nazionale della Russia? Perché il popolo russo continua a sostenere Putin? Certi interrogativi sono riaffiorati nel dibattito pubblico successivamente all’invasione su larga scala in terra ucraina, ma quanto sono fondati e quanta ragione hanno di esistere? Meduza, il noto sito d’informazione russo indipendente, ripercorre la storia di questo “pensiero critico” e rivela l’origine e i lampanti limiti di una teoria alquanto controversa, ma che ha attirato nel tempo molti seguaci…
Alle origini di un’idea
Fu un resoconto di viaggio del sedicesimo secolo, scritto da un diplomatico del Sacro Romano Impero di nome Sigismund von Herberstein, che per la prima volta descrisse la Russia come un paese in cui vigeva una “crudele schiavitù”; tale commento nasceva dalla constatazione che l’entourage del principe d’allora Basilio III non era composta da aristocratici con certi diritti e privilegi, bensì da servitori senza alcuna libertà e con nessun diritto di proprietà. Seppur datate, le testimonianze di von Herberstein lasciarono il segno e furono di particolare importanza perché contribuirono a coltivare l’immaginario collettivo occidentale sulla Russia e il suo sistema socio-politico.
Con il tempo i giudizi sul paese non cambiarono, ma l’opera di Astolphe de Custine “La Russia nel 1839” rappresentò un nuovo riferimento per gli studi in materia; de Custine parlava di un paese in cui ognuno scontava una condizione di schiavitù e in cui al posto della legge sembrava regnare un arbitrio senza limiti. “La Russia nel 1839” ha rappresentato una lettura di riferimento anche nel Novecento e plasmò il pensiero di molti, tanto che fu elogiata anche da Walter Smith (ambasciatore statunitense in Russia nei primi anni della guerra fredda), George Kennan e Zbigniew Brzezinski.
In verità, come Marshall Poe e altri storici contemporanei hanno fatto notare, in resoconti come quello di de Custine era presente un lampante difetto di fondo; i visitatori stranieri applicavano le loro categorie mentali a una realtà completamente diversa dalla loro e ogni deviazione dalle norme a cui erano abituati veniva usata come pretesto per raffigurare quel paese come selvaggio e barbarico.
Inoltre, ancor prima di discutere di cultura politica o del “risentimento russo”, uno dei punti da chiarire per confutare la teoria che vuole la Russia vittima perpetua di un qualche autoritarismo è che non si può accettare l’idea per cui un popolo abbia un “destino naturale” a cui è condannato, come non si può nemmeno accettare l’esistenza di un “carattere nazionale” definito una volta per tutte. Una tale posizione porterebbe inevitabilmente a uno sguardo deterministico su un certo paese, poco utile per capire le dinamiche interne che nel tempo lo attraversano. Le differenze socio-politiche dipendono invece da molteplici fattori: storici, economici, ma anche geografici e climatici.
Perché Putin sta ancora al potere?
La presenza di una leadership autoritaria non significa che i cittadini non desiderino la libertà o che abbiano l’inclinazione a sottomettersi a un capo. Una lettura del genere sarebbe così semplicistica da risultare ridicola. Nella Russia di oggi sono moltissime le persone che tentano di opporsi come possono alla guerra e al regime di Putin, ma il prezzo da pagare può essere altissimo dal momento che il sistema repressivo dall’inizio dell’invasione in Ucraina si è fatto sempre più pervasivo e crudele.
A dire il vero, potrebbe essere proprio questa repressione così spietata a testimoniare che in Russia il dissenso contro il governo sia molto più diffuso di quanto si credi comunemente. Del resto, come hanno insegnato i totalitarismi del Novecento, il terrore precede lo stato ideologico. Allo stesso tempo, non bisogna sottovalutare la forza della propaganda, la quale sommerge quotidianamente l’opinione pubblica russa e alla quale nemmeno noi occidentali siamo immuni, come non si può mettere ai margini se si parla di società civile russa la “rassicurante realtà fittizia” offerta dall’ideologia (la lotta contro il nuovo nazismo, la nostalgia per l’URSS e per l’impero, gli accenni ai un nuovo ordine internazionale ecc.). Potrebbe invece essere più interessante chiedersi perché quei russi emigrati all’estero non protestino.
Nell’articolo di Meduza si cita il lavoro di Jack Goldstone, sociologo americano e specialista di movimenti sociali, il quale afferma che un numero di fattori devono presentarsi più o meno contemporaneamente affinché possa avvenire un cambio di regime: problemi economici, una frattura nelle élites di potere, un alto numero di proteste, un obiettivo ben definito condiviso da politici di opposizione e manifestanti di piazza e per ultimo delle condizioni favorevoli a livello internazionale – quest’ultima voce da tradursi con supporto della comunità internazionale. Nessuna di queste voci sembra essere presente oggi in Russia.
Un altro contributo importante, e abbastanza tragico, arriva dalla scienziata politica Erica Frantz, la quale ricorda come le autocrazie personali (di cui il regime di Putin fa parte) siano i regimi destinati a durare più a lungo e i meno indicati a prendere la strada della democrazia. Per di più, la studiosa dimostra che se un dittatore rimane al potere per un periodo superiore ai 20 anni, nell’ottanta per cento dei casi sarà molto probabilmente sostituito da un leader con idee e modus operandi molto simili.
Capire la Russia di oggi è sicuramente difficile, forse a tratti frustrante, ma accusare un intero popolo di complicità con il regime o di piegarsi ai desideri e alle parole d’ordine del proprio “capo” perché cosi è nella sua natura sicuramente non aiuta; intanto sarebbe bene rimarcare che questa è la guerra di Putin, prima che dei russi.