Senza troppe sorprese, i turchi scelgono ancora una volta Recep Tayyip Erdoğan come presidente della Repubblica di Turchia per altri 5 anni con il 52,16% dei voti a suo favore. Per quanto gli analisti occidentali e filo repubblicani avessero sperato in una svolta e ritenuto possibile la vittoria dello schieramento opposto, quella dell’ormai celeberrima “Tavola dei sei” che appoggiava la candidatura del leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu, i risultati della prima tornata avevano lasciato sempre meno spazio a questa evenienza. Chi non se l’aspettava non conosce il Paese fino in fondo, chi lo conosce e ha comunque urlato al miracolo, ha indossato lenti ai limiti dell’orientalismo per guardare a un Paese che non può per conformazione essere paragonato a una realtà né europea né americana per una serie di motivi.
Sicurezza nazionale e pugno di ferro
In virtù del suo retaggio imperiale che gli anni del soprannominato “sultano” non hanno certo allontanato, la Turchia non solo è abituata, ma predilige le leadership forti. Anche il fondatore della repubblica turca Mustafa Kemal Atatürk, per quanto di ideologia assai diversa dall’attuale Reis in quanto a laicismo e occidentalizzazione, era pur sempre un generale dell’esercito. Il culto della forza è insito nel modo in cui l’intera società viene tuttora educata coi giovani maschi obbligati al servizio militare per servire il secondo più numeroso esercito della Nato, come ha ricordato in questi giorni la nave da guerra TGC Anadolu parcheggiata nel Bosforo e aperta alle visite del pubblico. Quella di Atatürk è stata una figura altrettanto “totalizzante” e, soprattutto, altrettanto carismatica. I turchi sono soliti votare non solo per la personalità, ma per la persona. Erdoğan viene soprannominato “baba“, papà, Mustafa Kemal è, appunto, Atatürk, padre della patria. Kemal Kılıçdaroğlu ha tentato, nel poco tempo a sua disposizione, di diventare “dede“, nonno dei turchi, ma non è un caso che si ponga l’accento sulla longevità del potere di Erdoğan, l’unico paragonabile al fondatore della nazione. Nonostante il credo kemalista di “pace in casa, pace nel mondo”, altrettanto spontaneamente la Turchia si sente continuamente osteggiata da un qualche nemico di sorta da cui difendersi, che sia esso interno o esterno. E se quello esterno può modificarsi in base alle tendenze di politica estera del momento, sebbene alcune ostilità restino pressoché immutate e la linea del governo in carica sia ben nota (a differenza di quella di una papabile nuova direzione), i nemici interni sono altrettanto minacciosi e immutabili: le differenze etniche, le spaccature culturali e un capro espiatorio raddoppiato: non solo i curdi, ma ora anche i siriani. Difficile completare un puzzle così complesso senza il pugno di ferro di un leader autocratico. Troppa la paura dei turchi di sprofondare nel caos.
Unità vs discontinuità e frammentazione
Perciò, per quanto i turchi siano tendenzialmente artefici del proprio destino, come dimostrano i dati dell’affluenza alle urne che, sebbene leggermente più bassi in questo secondo turno, hanno comunque superato l’80%, sono poi anche poco propensi al cambiamento e a grandi rivoluzioni. Un popolo spaccato in due dagli schieramenti politici, ma in molti altri frammenti che proprio la fondazione stessa della repubblica per mano di Atatürk un secolo fa aveva tentato di mettere sotto un unico cappello identitario, linguistico, culturale. Nonostante la crisi economica, nonostante il disastro del terremoto, nonostante il terrorismo che tanta presa ha fatto in queste ultime due settimane di campagna elettorale apparendo sui cartelli di entrambi gli sfidanti, i turchi hanno bisogno di credere che uniti si possa affrontare tutto. Al contrario di quanto simboleggiato dai nomi delle due fazioni, la nazione come idea unificante si è dimostrata più forte del popolo: AKP e MHP in quanto Alleanza del popolo si sono dimostrati assai più coesi rispetto all’Alleanza della Nazione di CHP, IYI, DEVA, GP, SP e DP, unita dall’unico intento di sconfiggere il nemico, ma troppo composita per provenienze e attitudini e perciò non abbastanza rassicurante. Il popolo aveva nelle mani il destino della nazione, e ancora una volta il popolo turco ha seguito il detto: “chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia, non sa quel che trova”. “Se sei un fattorino a Istanbul”, ha affermato l’analista Selim Koru alla newsletter Turkey Recap, “la tua identità professionale non ti aiuta a sentirti speciale, ma essere parte della nazione turca spesso invece fa questo effetto, e vedi quanti hanno una bandiera impressa sul motorino”. Un tratto confermato dallo stesso discorso del vittorioso Erdoğan dalla sontuosa residenza presidenziale ad Ankara, anni luce dall’umile cucina delle dirette di Kılıçdaroğlu: “oggi nessuno ha perso, tutta la nazione, tutti gli 85 milioni di turchi hanno vinto” ovvero, anche chi non ha votato per lui. “Non ce l’abbiamo con nessuno, mettiamo da parte i dissapori della campagna elettorale e riuniamoci attorno ai nostri sogni nazionali”.
Sempre più a destra
E forse l’unico tratto che in questo momento accomuna Europa e Turchia è la tendenza a virare sempre più a destra. Come già spiegato, a questa tornata i partiti nazionalisti hanno totalizzato risultati senza precedenti. I lupi grigi del MHP (Partito del Movimento Nazionalista) saranno rappresentati da 51 legislatori detenendo il 10.4% del nuovo parlamento che sta per insediarsi. È stata la terza e meno considerata Alleanza Ancestrale formata da Sinan Oğan e Ümit Özdağ a tenere sul filo del rasoio osservatori e votanti, finché al ballottaggio i due nazionalisti non si sono separati per appoggiare l’uno Erdoğan, l’altro Kılıçdaroğlu. Kılıçdaroğlu che soprattutto in queste ultime due settimane ha fatto sua una delle cause nazionaliste della campagna elettorale: il necessario rimpatrio dei cittadini siriani. Se eletto, “li avrebbe rispediti tutti indietro, punto” mentre Erdoğan conta di farlo pian piano, un milione per volta.
Il dominio dei media
Innegabile anche un punto sollevato da più analisti internazionali e dallo stesso Kılıçdaroğlu nel suo discorso post elettorale: i turchi ormai da anni non hanno accesso ad un’informazione imparziale e veritiera. I media sono quasi tutti controllati dal governo, cosa che ha scatenato non poca confusione anche nello spoglio del primo turno coi risultati contrastanti delle due agenzie di stampa Anadolu e Anka. Il tempo dedicato alla propaganda di Erdoğan e del suo partito in tv e altrove non è neppure minimamente paragonabile a quello di Kilicdaroglu e dello schieramento all’opposizione. Kılıçdaroğlu ha giocato meglio che poteva le sue carte come dimostra il successo della partecipazione alla trasmissione YouTube BaBaLa. Per quanto l’intervista fiume di oltre 4 ore abbia fatto 10 milioni di visualizzazioni nelle prime 5 ore, YouTube non è la televisione di stato. Guardandoli da questa prospettiva, i risultati di Kılıçdaroğlu sono a loro modo una vittoria e un risultato senza precedenti nell’ultimo ventennio, risultati che potrebbero effettivamente gettare le basi per un’alternativa più solida, dimostrando semplicemente che i turchi non siano ancora pronti a imboccare un’altra strada e che il cambiamento sia solo ancora acerbo. Certo, pensando alle proteste di Gezi park che come uno scherzo del destino iniziavano in questi giorni proprio 10 anni fa, questo barlume di speranza potrebbe anche solo diventare un altro sogno interrotto per i turchi di sinistra.
L’abisso tra città e zone rurali
La spaccatura più consolidata, però, è quella tra grandi città e zone rurali. Istanbul, Ankara e Smirne non sono la Turchia. Come ha sottolineato lo scrittore Kaya Genç in un’intervista al New Yorker una decina di giorni fa, “pensavamo che la distinzione tra laici e religiosi, tra città e campagna, fosse oltrepassata, invece queste elezioni hanno confermato che non è così”. Sin dal primo momento della sua carriera politica Erdoğan ha rappresentato e difeso le aree rurali e i musulmani che, prima della sua ascesa, vivevano il trauma di non poter professare liberamente il loro credo. Un trauma che ha sfruttato politicamente, un trauma che unisce, che ha costruito una sua identità. Parte del suo primo discorso a caldo dopo la vittoria, tenuto dal tettuccio di un bus a due piani che attraversava il quartiere conservatore di Üsküdar, a Istanbul, si è schierato contro la comunità LGBTQI+ in difesa dei valori della famiglia tradizionale. Che ci piaccia o no, più della metà della popolazione turca condivide questi valori. L’altro 48% non è poco e non starà in silenzio, se non deciderà spontaneamente di uscire dai confini del Paese in una sorta di esilio volontario. Erdoğan resterà in carica fino al 2028, “sarò qui fino alla tomba”, ha detto, ed è già proiettato verso le amministrative del 2024. Troverà il modo, se la salute lo accompagna, oppure sarà interessante vedere chi sarà l’erede al trono da far sorgere e crescere in questi 5 anni per assicurarsi una vittoria per interposta persona.
foto: UPI – Turkish President Press Office