Torna nel programma della Semaine de la Critique il regista serbo Vladimir Perišić con il suo secondo lungometraggio, Lost Country, che ripropone la difficile epoca della fine della Jugoslavia da una nuova prospettiva.
Il cinema balcanico e serbo ancora oggi sforna continuamente opere che ritornano, sempre in modi diversi, all’epoca che ha traumatizzato la storia di questa regione, e così fa Lost Country. Un cast che vede in ruoli di supporto Jasna Duričić e Boris Isaković, noti al vasto pubblico per i ruoli principali in Quo Vadis Aida? di Jazmila Žbanić, e come protagonista il non professionista Jovan Ginić, il film è un coming-of-age, un genere che spesso si è prestato al racconto della fine del comunismo nel cinema dell’Est Europa: si pensi a Metronom di Alexandru Belc, per esempio. Curiosamente, Belc e Perišić condividono anche un sistema di lavorazione simile, costruendo entrambi i film attraverso gli attori. Non è quindi un caso che Lost Country sia un film fortemente incentrato sui suoi personaggi e le loro interazioni. La performance di Jovan Ginić ha colpito la giuria della Semaine, composta da Audrey Diwan, Rui Poças, Franz Rogowski, Meenakshi Shedde e Kim Yutani a tal punto da ottenere il premio Louis Roederer alla migliore star emergente
Lost Country segue un ragazzo, Stefan, che è figlio di una portavoce del governo, a ridosso delle elezioni del novembre 1996, in cui il risultato, che era a favore dell’opposizione, è annullato dal regime di Milošević. Si procede quindi ad una tragica storia in cui il protagonista si ritrova a fare i conti tra la personalità della madre nella vita privata, e la sua figura pubblica, ripudiata dai suoi amici e conoscenti. Uno studio sul nepotismo, ma anche sull’emarginazione. Il finale, molto pessimista, è di un’angoscia che ricorda alcune opere di Robert Bresson, come Mouchette o Il Processo a Giovanna d’Arco. Perišić ha ammesso che la sua intenzione era di creare un effetto simile a quello provocato dalle opere di Bresson, nelle quali spesso i protagonisti giungono ad una fine infelice, ma che ha una funzione di fuga dalla loro situazione.
Essendo il cineasta cresciuto in quegli anni, non è difficile vedere nelle insicurezze e tribolazioni di Stefan una sorta di sua catarsi personale, ma bisogna tenere conto che il personaggio è stato modellato in funzione dell’attore, più che in funzione delle intenzioni originali di preproduzione. Non lo si può dire un’opera autobiografica più di quanto lo sia qualsiasi opera filmica di finzione.
Lost Country arriva dopo un anno in cui il cinema serbo non è riuscito ad emergere in modo rilevante sullo scenario internazionale. La sua presenza a Cannes come uno dei soli quattro lungometraggi di finzione dell’Europa orientale e la sua vittoria è un buon auspicio per un futuro migliore.