Amnesty crimini di guerra

Sui crimini di guerra ucraini, Amnesty non aveva prove certe

Amnesty sottopose il report in cui accusava Kiev di crimini di guerra a un gruppo di esperti, ma poi avrebbe fatto pressioni per ammorbidire le critiche emerse dal loro lavoro di revisione, che evidenziava l’insufficienza di prove e un linguaggio giuridico ambiguo e confuso… 

Alcuni mesi fa Amnesty International, organizzazione non governativa britannica, pubblicò un documento in cui si accusava l’esercito ucraino di aver compiuto crimini di guerra. Il documento faceva riferimento a un report mai reso noto al pubblico ma che il New York Times ha recentemente diffuso. L’accusa era quella di esporre i civili ucraini alla rappresaglia russa stabilendo basi d’attacco nei pressi o all’interno di abitati, utilizzando anche scuole e ospedali. A condurre le ricerche di Amnesty International nei territori occupati, intorno a Kharkiv, Mykolaïv e nelle regioni del Donbass, fu Donatella Rovera, che da vent’anni si occupa di crimini di guerra. La reazione alla pubblicazione del documento di Amnesty fu durissima, sia da parte di ampi settori dell’opinione pubblica, sia da parte delle istituzioni ucraine. Il tema, d’altronde, si prestava a facili strumentalizzazioni, in un clima già estremamente polarizzato e inquinato dalla propaganda russa. Questo convinse Amnesty a sottoporre il report a revisione esterna incaricando cinque esperti in diritto internazionale di far luce sulla correttezza di quanto riportato.

Secondo quanto scritto dal New York Times, gli esperti avrebbero sottolineato l’importanza del lavoro di Amnesty International, affermando che è giusto valutare se anche chi si sta difendendo, e non solo l’aggressore, obbedisce alle leggi di guerra. Tuttavia, occorre “che vi siano prove sufficienti di tali violazioni” e, concludono gli esperti, le accuse di Amnesty “non erano sufficientemente comprovate” dalle prove disponibili.

Gli esperti si concentrano inoltre sul linguaggio utilizzato definendolo “ambiguo, impreciso e per certi versi legalmente discutibile” soprattutto “nei paragrafi di apertura, che potrebbero lasciar supporre che le forze ucraine fossero ugualmente responsabili dei russi nella morte di civili”. Il New York Times, citando una fonte anonima, afferma che Amnesty avrebbe fatto pressioni sul gruppo di esperti affinché ammorbidissero il tono della revisione i cui contenuti non sono comunque stati resi noti al pubblico ma utilizzati unicamente per scopi interni.

Pur criticando l’analisi di Amnesty International, il gruppo di revisione (composto, tra gli altri, da Emanuela-Chiara Gillard dell’università di Oxford; Kevin Jon Heller dell’università di Copenhagen; Eric Talbot Jensen della Brigham Young University; Marko Milanovic dell’università di Reading; e Marco Sassòli dell’università di Ginevra) ha convenuto che la dichiarazione di Amnesty era in parte supportata dai fatti. Ad esempio, ci sono “almeno 42 casi specifici in 19 città e villaggi” in cui i soldati ucraini operavano vicino ai civili, e diversi “attacchi da parte delle forze russe che sembravano prendere di mira l’esercito ucraino hanno provocato la morte o il ferimento di civili e danni a oggetti civili”. Questo solleva interrogativi sulla condotta dei militari che, almeno, avrebbero dovuto evacuare i civili qualora si fossero posizionati vicino agli abitati. In determinate situazioni – ricorda il New York Times – può infatti essere impossibile stabilire basi di tiro lontano dai centri abitati, ma evitare “danni collaterali” (vale a dire, morti civili) è un dovere di ogni esercito in guerra.

Quello che tuttavia appare chiaro è che l’enfasi sui crimini di guerra ucraini era in parte ingiustificata, poiché – ribadiscono gli esperti – si tratta di singoli casi e non “di uno schema”, come affermato da Amnesty. Aggiungiamo noi che eventuali colpe delle forze armate ucraine vanno indagate ed eventualmente condannate, ma senza dimenticare il contesto. Sono i russi a fare degli attacchi ai civili “uno schema”, non gli ucraini. Non si tratta, a ben vedere, solo di un problema di linguaggio ma anche di sostanza. Attribuire le responsabilità è sacrosanto, negare i crimini di guerra ucraini è sbagliato, ma diffondere immagini deformate della realtà è un altro discorso: “In mancanza di prove inoppugnabili, utilizzare maggiore cautela sarebbe auspicabile” conclude il New York Times, e alla luce dei fatti è difficile non essere d’accordo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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