A trent’anni di distanza dalla distruzione del Ponte Vecchio di Mostar per mano delle unità croato-bosniache, compare un video inedito delle esplosioni, ulteriore prova della colpevolezza dell’Esercito di Croazia e del Consiglio di difesa croato (HVO) nella demolizione del ponte
Il video inedito
Era il 9 novembre 1993 quando, sotto i colpi dell’artiglieria croato-bosniaca, crollava lo Stari Most, il Ponte Vecchio di Mostar, gioiello dell’architettura ottomana che unisce le due rive del fiume Neretva. Dopo anni di ricerche, Historija TV, in collaborazione con l’associazione congiunta dei veterani e il Centro per la pace e la cooperazione multietnica di Mostar, ha ritrovato un video che costituisce un’ulteriore prova della colpevolezza delle unità regolari dell’Esercito della Repubblica di Croazia e delle milizie croato-bosniache del Consiglio di difesa croato (HVO) nella distruzione del ponte simbolo della città.
Il direttore del Centro per la pace e la cooperazione multietnica, Safet Oručević, ha dichiarato che il filmato in questione non fa che confermare quanto già stabilito dal Tribunale dell’Aja in merito alla distruzione del ponte, aggiungendo la propria soddisfazione per non aver mai accusato il popolo croato dello scempio commesso, ma “solo i mostri che l’hanno ordinato e realizzato”, e ricordando al contempo l’orgoglio per la decisione di ricostruire il Ponte Vecchio con il sostegno del governo croato dell’epoca.
Il filmato è stato conservato per tre decenni negli archivi privati dell’HVO, negandone così la consultazione anche agli inquirenti del Tribunale dell’Aja nell’ambito del processo contro i “sei dell’Erzegovina“: Slobodan Praljak (il generale croato riconosciuto responsabile della distruzione del ponte), Jadranko Prlić, Valentin Ćorić, Bruno Stojić, Milivoj Petković e Berislav Pušić, tutti condannati per “impresa criminale congiunta”.
A trent’anni di distanza, questo filmato inedito della distruzione del ponte e del suo crollo inesorabile, riporta alla mente, esplosione dopo esplosione, gli orrori di quella guerra tremenda, aggiungendosi al video “ufficiale”, sfocato e girato con mezzi di fortuna dal bosniaco Zaim Kajtaz, che fece in breve tempo il giro del mondo, generando indignazione e condanne unanimi.
Il crollo delle speranze
Sono passati trent’anni dalle immagini di Kajtaz, e questo video inedito del ponte che si disintegra fa ancora più male, è uno schiaffo che fa eco alle tensioni mai sopite tra le due etnie della città, quella croata e quella musulmana. La barbarie della guerra ha infatti lasciato segni evidenti in città, non solo negli edifici sventrati, nei cimiteri gremiti di vittime e nelle targhe commemorative, ma anche in una quotidianità fatta di divisioni. Ancora oggi, e nonostante la formale riunificazione amministrativa di Mostar, esistono scuole divise su base etnica, con programmi di studio differenziati e insegnamenti nelle diverse varianti linguistiche della regione, due poste centrali, due stazioni centrali, due università, due fornitori d’acqua, due imprese comunali per la pulizia pubblica, due corpi di vigili del fuoco. C’è una tolleranza dettata soprattutto da ragioni di convenienza, ma lontana dall’essere una collaborazione sincera, e lontanissima dalla riconciliazione.
Il Vecchio, come lo chiamavano affettuosamente i mostarci, gli abitanti di Mostar, aveva unito per quasi cinque secoli non solo le sponde est e ovest del fiume, ma anche la gente, le religioni, le etnie e due mondi diversi. La sua distruzione fu l’apice della guerra condotta dai croati verso i vicini – e fino ad allora alleati – musulmani bosniaci. Strategicamente poco utile al proseguimento del conflitto, la mossa fu un atto simbolico, un attacco alla memoria, dal momento che mirava a distruggere un patrimonio culturale comune e a cancellare secoli di convivenza pacifica.
Alla notizia dell’abbattimento del Vecchio, la reazione dei mostarini fu istintiva, quasi viscerale. Džemal Humo, poeta di Mostar, ha scritto nel suo diario: “Le persone che si nascondevano nelle cantine, incredule e incuranti del pericolo uscirono dai rifugi e si recarono di corsa sulla sponda, cercando il Ponte. Centinaia di uomini, donne, bambini sbalorditi fissavano il vuoto e la voragine. Il Vecchio non c’era più. Gridavano, piangevano, minacciavano, maledicevano, alzavano le mani verso il cielo e chiedevano: perché?”.
Una domanda irrisolta
Già, perché? Il ponte di Mostar fu costruito nel 1557 dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar, discepolo di Sinan, il padre dell’architettura ottomana classica. È stato realizzato con 456 blocchi di pietra bianca, tenuti assieme grazie ad un sistema d’incastri e tasselli. Due torri fortificate lo proteggono: la torre Helebija a nord-est e la torre Tara a sud-ovest. Il ponte è stato ricostruito e inaugurato nel luglio del 2004 ed oggi è una delle attrazioni più visitate del paese dei ponti, la Bosnia Erzegovina, riconosciuto per la sua bellezza come patrimonio mondiale e messo sotto la protezione dell’UNESCO.
Se i Balcani sono una metafora della nostra storia contemporanea, dall’emergere dei nazionalismi all’incapacità di trovare una risposta diversa dalla guerra alla sfida della coesistenza, il conflitto nell’ex-Jugoslavia ha portato ad una escalation di violenze che incarnano paradigma e monito della disgregazione di una comunità, di qualcosa che può accadere ovunque e in ogni momento. Lo Stari Most oggi ha perso la sua funzione storica: non unisce più, anzi, simboleggia l’opposto, il diverso, il nemico, palesandoci dove conducono odio e disumanità, e lasciandoci sempre con la stessa domanda irrisolta: perché?
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