Manca ormai pochissimo alle elezioni più attese di questo anno a livello internazionale, nonché forse le più importanti elezioni nella storia repubblicana turca. Il prossimo 14 maggio 2023, infatti, il popolo turco si recherà alle urne per eleggere il Presidente e i 600 parlamentari che comporranno la nuova Grande Assemblea Nazionale Turca (TBMM).
Il centenario, la “nuova Turchia” e le speranze dell’opposizione
Il 2023 doveva rappresentare, almeno nella visione di Recep Tayyip Erdoğan, l’anno della sua definitiva consacrazione quale “leader maxìmo” della Turchia, relegando – sempre con un certo rispetto e deferenza – Mustafa Kemal Atatürk al secolo passato e aprendo la strada alla “nuova Turchia”. Nell’ultimo quinquennio, tuttavia, l’evolversi della situazione tanto esterna quanto interna al paese, spesso anche in conseguenza a decisioni e politiche dello stesso Erdoğan, ha portato a un sostaziale declino della sua popolarità e al consolidamento dell’opposizione, decisa a scardinare finalmente l’erdoğanismo di stato.
A contribuire e determinare il 2023 come tappa fondamentale per il paese è stato in primis lo stesso Recep Tayyip Erdoğan, il quale ha caricato di pathos e aspettative il centenario della Repubblica. Risale al 2011 il primo annuncio, da parte dell’allora primo ministro Erdoğan, di quella che si evolverà nel tempo nella “Vision 2023” per una Yeni Türkiye, ma che delineava già allora obiettivi oltremodo ambiziosi. Con il passare degli anni, i progetti con scadenza al 2023 si sono moltiplicati: virtualmente ogni singolo progetto annunciato nell’ultimo quinquennio ha avuto come obiettivo prefissato la sua realizzazione per il centenario, indipendentemente dall’effettiva possibilità o meno di portarlo a termine. Lo stesso referendum costituzionale del 2017 per trasformare la Repubblica in Presidenzialismo, e l’anticipazione delle elezioni dal 2019 al 2018, sono stati elementi centrali per far coincidere le successive elezioni con il centenario e concorrere come leader in carica in un clima di estrema esaltazione nazionale. Per un Paese – e un Presidente – che ha fatto dell’utilizzo simbolico degli anniversari uno strumento politico – e la scelta del 14 maggio non è anche qui casuale – è stato subito evidente che tale mossa era in funzione di correre per il secondo mandato proprio nel 2023.
Contrariamente alle aspettative, tuttavia, date le conseguenze del devastante terremoto e l’inarrestabile crisi economica, in Turchia l’attuale clima politico è lungi dall’essere in linea con quello preventivato dal Presidente. Il crescente malumore tra la popolazione, anche verso quel sistema di accentramento e personalizzazione del potere, è il minimo comune denominatore che potrebbe per la prima volta negli ultimi 20 anni sperare di allontanare Erdoğan dai palazzi del potere nazionale.
Il sistema Presidenziale come possibile contraccolpo per Erdoğan
In un certo senso è possibile affermare che proprio la riforma costituzionale del 2017 tanto voluta dal leader AKP ha creato le condizioni per una potenziale sconfitta del Presidente. Proprio con il sistema parlamentare, l’AKP prima, ed Erdoğan poi, sono riusciti a ottenere e rinsaldare ampiamente la presa sul potere, complice anche un sistema elettorale e partitico che ne ha favorito l’affermazione. L’utilizzo del metodo D’Hondt e una soglia di sbarramento al 10% del sistema elettorale, combinati assieme, hanno ostacolato l’elezione di nuovi partiti, indebolito quelli vecchi e incentivato i piccoli partiti ad allinearsi con altri o a candidarsi come indipendenti. Allo stesso tempo la profonda polarizzazione della società turca secondo le tradizionali fratture lungo gli assi religioso (islamico/secolare) ed etnico (turco/curdo) si è andata consolidandosi in maniera tale da trasformare i partiti politici in rappresentanti di schieramenti ben definiti e “congelati”. La soglia elettorale al 10% – la più alta al mondo – ha portato gli elettori ad un “voto strategico” , concentrandolo su quattro partiti fulcro per essere certi di non sprecarlo: l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) conservativo-religioso, il MHP (Partito del Movimento Nazionalista) etno-nazionalista, il CHP (Partito Popolare Repubblicano) secolarista, l’HDP (Partito Democratico dei Popoli) curdo-laico. Il sistema parlamentare e quello elettorale hanno però permesso in più occasioni all’AKP di governare il Paese con solide maggioranze pur non avendo il 50% dei voti.
Il “gioco” delle alleanze elettorali
Se la crescente personalizzazione del potere e il deterioramento delle istituzioni democratiche hanno reso Erdoğan il nemico comune a un’opposizione altrimenti divisa, proprio il cambiamento delle regole del gioco elettorale – ovvero l’introduzione del sistema presidenziale e, con esso, la politica delle alleanze elettorali – ha permesso materialmente la creazione di un blocco di opposizione unito. Da una parte, infatti, il sistema presidenziale prevede l’elezione del candidato che ottiene il 50%+1 dei voti – con una seconda votazione a due settimane nel caso al primo turno nessuno riesca ad ottenerlo – promuovendo di per sé la formazione di liste pluripartitiche. Dall’altra, con il nuovo sistema i partiti minori sono incentivati a entrare/formare un’alleanza elettorale, la somma dei cui voti sarà quella valida per superare la soglia di sbarramento, scesa comunque dal 10% al 7% con gli emendamenti al sistema elettorale approvati nel 2022. Proprio questi ultimi sono stata introdotti dalla maggioranza di governo con il fine di rafforzare il proprio potere, ma negli ultimi anni le opposizioni hanno compreso e imparato a sfruttare tale gioco delle alleanze. Un gioco che ha anche rafforzato il peso elettorale dei partiti minori: considerata infatti l’attuale estrema, (ma bilanciata) polarizzazione della società turca – quella tra erdoğanisti e anti-erdoğanisti – anche pochi punti percentuali apportati da piccoli partiti possono essere quelli che fanno la differenza. Questo è proprio il motivo che ha spinto Erdoğan a ricercare e ottenere l’appoggio di (discutibili) partiti minori quali il Nuovo Partito del Benessere (Yeniden Refah Partisi YRP), guidato da Fatih Erbakan – figlio dell’ex primo ministro e leader del Welfare Party (dove Erdoğan ha militato) Necmettin Erbakan – e del Free Cause Party (HÜDA-PAR), partito curdo islamista con un passato controverso e legami con Hezbollah.
Allo stesso tempo, proprio dal momento che anche solo un punto percentuale può fare la differenza, occorre ricordare che la totalità dei voti ottenuti da un’alleanza elettorale può essere differente da quella ottenuta dal candidato Presidente supportato dalla stessa (nel 2018 l’Alleanza del Popolo ha ottenuto il 53,7% ma Erdoğan 52.6%). Ciò proprio perché il 14 maggio gli elettori turchi potranno esprimere la preferenza per un partito interno a un’alleanza elettorale (per il parlamento) ma allo stesso tempo non votare per il candidato Presidente supportato dalla stessa. Tale possibilità porta in causa la scelta dell’HDP, il principale partito curdo – che in attesa della sentenza della Corte Costituzionale riguardo la chiusura del partito ha preventivamente scelto di correre per le elezioni sotto altro nome, il Partito dei Verdi di Sinistra (Yeşil Sol Parti- YSP). Questo è ufficialmente parte di un’alleanza elettorale differente da quella del Tavolo dei Sei, la Alleanza per la Libertà e il Lavoro (Emek ve Özgürlük İttifakı), che include altri cinque partiti minori della galassia della sinistra turca, ma che ha formalmente deciso di non proporre un proprio candidato alla Presidenza, appoggiando in tal modo, seppur informalmente, Kılıçdaroğlu.
Una prova di maturità per la democrazia turca
La strada è lunga e le elezioni del 14 maggio sono solo il primo di molti ostacoli. Considerato il testa a testa previsto e il precedente delle elezioni municipali del 2019, vi è un diffuso timore tra i sostenitori dell’opposizione circa potenziali brogli durante il voto e, soprattutto, un mancato riconoscimento dei risultati in caso di sconfitta da parte del Presidente. La posta in gioco per l’attuale presidente è assoluta, e lui lo sa bene. Stando ai sondaggi l’AKP è tuttora il maggiore partito in termini di preferenze e, qualora riuscisse a eleggere un importante numero di deputati, Erdoğan potrà basare le due successive settimane di campagna elettorale per il ballottaggio del 28 maggio proprio sulla stabilità governativa che il Paese necessità e che solo lui, con una maggioranza parlamentare già assicurata, potrà garantire.
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