armi all'Ucraina

Armi all’Ucraina, un male necessario?

Era il 5 febbraio 1994, un sabato, intorno alle 12.10 un colpo di mortaio sparato dalle colline che circondavano la città assediata, dove operava l’artiglieria serba comandata dal generale Ratko Mladic, colpì in pieno il mercato di Sarajevo uccidendo 68 persone e ferendone oltre 140. «Questo è un giorno nero e terribile per la gente della Bosnia Erzegovina. Siamo condannati a morte, ci è negato il diritto di difenderci. Coloro che ci privano del diritto di autodifesa saranno complici di questo crimine» disse allora il presidente bosniaco Alija Izetbegovic. Il New York Times riportò che alcuni cittadini di Sarajevo al mercato di Markale avevano gridato ai giornalisti stranieri: «È stato il mondo», «Tutto il mondo ha ucciso queste persone». Ai musulmani di Bosnia era infatti impedito ricevere armi. Si decise così, di non mandare armi a nessuna delle parti in guerra. Questo non abbreviò il conflitto che, anzi, durò complessivamente dieci anni.

Le armi giunsero comunque grazie ai trafficanti. La vendita illegale di armi seguiva canali più o meno oscuri, ma era noto – ad esempio – l’impegno della diaspora croata nel rifornire le milizie di Zagabria con il coinvolgimento del governo argentino (tanto che l’allora presidente, Carlos Menem, verrà processato per traffico d’armi). L’esercito serbo comprò, in quel periodo, grosse quantità di materiale bellico di contrabbando, proveniente dai depositi sovietici attraverso società fittizie intestate ai nascenti oligarchi russi. Vienna diventò la centrale di smistamento e l’embargo delle Nazioni Unite venne facilmente aggirato al punto che alcuni governi europei – Berlino e Londra, in testa – iniziarono a spedire equipaggiamenti militari e concessero prestiti alle fazioni in guerra. Le armi arrivano comunque. E lasciarono una pesante eredità: terminati i conflitti, un vasto numero di armi (tra i quattro e i sei milioni, su una popolazione complessiva di 25 milioni) è rimasto nella regione, spesso in mano ai civili, facendo il gioco delle mafie locali.

Il precedente jugoslavo

La questione relativa all’invio di armi all’Ucraina domina il dibattito pubblico. Si tratta di una tendenza degli ultimi mesi, che ha ormai soppiantato l’analisi sulle cause del conflitto. Non diremo se siamo a favore o contro l’invio di armi perché la nostra redazione è un luogo plurale, che accoglie e integra diverse sensibilità, e nessuno può – nemmeno chi scrive – pretendere di riassumere e rappresentare tutti. Ci limiteremo a porre degli argomenti di riflessione. Il precedente jugoslavo è un punto di partenza obbligato. Ci siamo già passati da un conflitto in Europa, ci siamo già chiesti cosa fosse giusto fare per contenerlo e risolverlo nel minor tempo possibile, ci siamo già interrogati sull’importanza della pace e su come raggiungerla. Allora si scelse di non mandare armi, ma il conflitto durò comunque dieci anni. La portata della strage convinse un intellettuale dissidente e rigoroso come Alexander Langer – tra gli animatori di Lotta Continua, poi ambientalista, pacifista, parlamentare europeo – a chiedere ai capi di Stato di smetterla “con la neutralità tra aggrediti e aggressori”. Non gli diedero ascolto.

Abbreviare il conflitto?

E questo è un punto centrale. Coloro che – legittimamente, in coscienza – chiedono che si interrompa l’invio di armi all’Ucraina devono tuttavia essere consapevoli che tale scelta non è meno gravosa e carica di responsabilità. Decidere di non mandarle, le armi, vuol dire sporcarsi le mani. Esattamente come mandarle. Sporcarsele di sangue, s’intende. Ed è questa consapevolezza che rende degna e rispettabile la posizione di chi è contrario all’invio di armi. Non deve prevalere l’idea che, non mandando le armi, ci si possa ritenere assolti, lavandosi così la coscienza e le mani. Poiché le guerre jugoslave ci hanno insegnato che un embargo sull’invio di armi non rende più breve il conflitto. E ci hanno insegnato che le armi arrivano comunque, e senza controllo. Non è affatto sicuro che, interrompendo l’afflusso di armi all’Ucraina, il paese si arrenda. Piuttosto è verosimile il contrario, con un costo di vite umane possibilmente ancora più alto. Evidentemente, un eventuale embargo andava deciso all’inizio del conflitto. La sospensione – ora come ora – rischia di essere un male peggiore.

L’Italia ripudia la guerra

“L’Italia ripudia la guerra”, comincia così l’art. 11 della Costituzione italiana, “come strumento di offesa  alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Tale ripudio – ha osservato il presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato  –  non è assoluto,  tanto che la stessa Costituzione prevede, in altri articoli, che l’Italia possa trovarsi in stato di guerra.

Il presidente emerito della Consulta. Cesare Mirabelli, spiega che “quanto scritto nell’articolo 11 ha il carattere di un’enunciazione generale e va letto come il ripudio della guerra di aggressione o intesa come uno strumento di soluzione delle controversie internazionali. Ma per la Carta la guerra esiste. Può essere deliberata dal Parlamento e proclamata dal presidente della Repubblica”. Inoltre, esistono dei vincoli relativi ai trattati internazionali sottoscritti dal nostro paese, sia con la NATO, sia con l’Unione Europea. Lo Stato italiano aderisce infatti allo “Strumento europeo per la pace” (Epf, dall’inglese European peace facility), un fondo esterno al bilancio comunitario dell’UE che ha l’obiettivo di finanziare una serie di azioni nel settore militare e della difesa. Anche in passato, l’Italia è stata parte attiva a conflitti, dalla prima guerra del Golfo a quella contro la Serbia di Milosevic, in ottemperanza ai propri impegni internazionali.

Detto questo, è chiaro ed evidente che le armi non generano alcun impatto sociale positivo, e che l’incremento delle spese militari previsto da alcuni paesi europei – Germania in testa – non possa che destare preoccupazioni. Si tratta però di problemi disgiunti. Le forniture militari all’Ucraina e la questione del riarmo non sono collegate. L’aggressione russa avrebbe comunque spinto i paesi limitrofi al riarmo, coinvolgendo la NATO (e quindi anche noi) a un incremento delle spese belliche in funzione di deterrenza.

Un problema morale

Nel settembre 2022, sul volo di ritorno dal suo viaggio in Kazakhstan, Papa Francesco dichiarò ai giornalisti che che l’invio di armi all’Ucraina è un atto morale se la motivazione è morale. Ovvero, inviare armi per provocare una guerra è “immorale”, ha detto il pontefice, ma se si tratta di difendersi allora è lecito: “La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto – ha detto Bergoglio – Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama”. Una dichiarazione che segnò l’ennesima giravolta di un pontefice quanto mai ondivago rispetto al conflitto che oppone Russia e Ucraina e che, in questo caso, ha dato voce ai molti mal di pancia di chi – nel mondo cattolico, ma non solo – non riesce a trovare una posizione sull’invio di armi, sospeso tra due dilemmi morali: la giustizia o la pace? 

Il precedente jugoslavo ci ricorda come una pace ingiusta – come fu quella firmata a Dayton, per la Bosnia – lasci aperta la ferita e renda instabile un paese per decenni, di fatto impedendo che si superi il trauma della guerra.

Finanziare per sorvegliare

Non sfuggono –  specialmente a sinistra – i rischi connessi al ruolo della NATO e alle eventuali derive autoritarie del governo ucraino. Tuttavia occorre riconoscere come l’allargamento NATO in Europa orientale sia stato un fattore di stabilità per paesi da sempre martoriati da conflitti. La pace, in Europa, è anche il risultato di questo processo di allargamento euro-atlantico ai paesi del vecchio Patto di Varsavia. Un processo che in larga misura è il risultato della volontà dei popoli di quei paesi, come nel caso ucraino: non è l’Occidente che è andato a Kiev, ma Kiev che è andata a Occidente.  

Infine, il rischio di crimini di guerra è minore se le attività militari ucraine, anziché mosse dalla disperazione di una resistenza senza uscita, sono coordinate da strutture militari di paesi che, pur tra molte contraddizioni, fanno dei diritti umani un punto cardinale della propria visione del mondo e che consentono ad osservatori indipendenti di monitorare l’effettività di tali crimini piuttosto che nasconderli, come fa il Cremlino. Eventuali derive autoritarie o nazionalistiche potranno essere allo stesso modo ricondotte all’interno di una cornice legale che assicuri i diritti delle minoranze e le libertà individuali accompagnando l’Ucraina in un percorso di avvicinamento alle istituzioni occidentali, Unione Europea in primis.

A questo punto, resta la domanda iniziale. L’invio di armi è un male necessario? L’imperativo della pace non può non misurarsi con questa domanda, ricordando come anche non mandare armi sia una responsabilità morale con cui fare i conti.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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