Mancano due mesi alle elezioni presidenziali e politiche in Turchia. Neppure il più grave terremoto della storia del Paese ne ha messo realmente in discussione la data che, se spostata a dopo l’estate, avrebbe costituito una vera e propria violazione costituzionale. Infatti, l’ultimo mandato dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan scade a Giugno e impedisce di andare oltre il 18 di quel mese, con un provvedimento borderline in caso di ballottaggio. Si è optato ufficialmente per il 14 maggio, come stabilito in precedenza, una delle poche decisioni condivise tanto dal governo quanto dall’opposizione. Sembra ci sia una gran fretta di andare alle urne, tanto quanto di ricostruire, almeno da parte dell’attuale reggenza, ma ci sarà impegno da entrambi i lati per garantire un voto equo o più semplicemente possibile per i cittadini che hanno perso casa e famiglia, la maggior parte dei quali non si trovano più nei loro luoghi di residenza?
Le due alleanze
Sono 36 i partiti reputati come qualificati alla presentazione delle liste, che avverrà entro il 16 marzo previa donazione all’AFAD, la presidenza per la gestione del Disastro e dell’Emergenza – il corrispettivo della nostra Protezione Civile – ma la partita delle elezioni in Turchia si gioca su un campo bipolare. Da una parte, “l’alleanza del popolo”, ovvero l’AKP, partito del presidente uscente, appoggiato dal partito nazionalista di Devlet Bahçeli MHP, con possibilità di estendersi al partito islamista YRP (Yeniden Refah Partisi) e al DSP (Demokratik Sol Parti) i partiti storici in cui Erdoğan ha militato agli albori della sua carriera politica. Dall’altra, “l’alleanza della nazione”, lo schieramento anti-Erdoğaniano, la cosiddetta “Tavola dei 6” (Altılı Masa) composta dai partiti SP (Saadet Parti), DP (Demokrat Parti), DEVA (Demokrasi ve Atılım Partisi) , GP (Gelecek parti, il neonato partito dell’ex Primo Ministro e Ministro degli Esteri proprio con l’AKP, Ahmet Davutoğlu), ma soprattutto l’İyi Parti con a capo Meral Akşener e il CHP, il partito repubblicano da cui era necessario estrapolare il candidato di punta. Dopo un lungo tira e molla, la scelta è andata sull’attuale leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu, pena gli altri due papabili, Ekrem İmamoğlu, attuale sindaco di Istanbul, incandidabile per un provvedimento voluto proprio da Erdoğan, e Mansur Yavaş, sindaco di Ankara, giudicato troppo poco conosciuto dall’opinione pubblica. Eppure, qualche giorno fa, Meral Akşener aveva minacciato di abbandonare la coalizione se avesse candidato Kılıçdaroğlu sostenendo fosse il nome meno forte, per poi cedere preferendo non acuire le spaccature che minano la già vacillante solidità della proposta.
Il linguaggio dei due programmi è infatti assai diverso. Erdoğan punta tutto sul futuro: ha già da mesi tappezzato le città turche con la sua silhouette che cammina fiera tra navi, ponti e caccia bombardieri verso quello che sarà il secolo della Turchia, a 100 anni dalla nascita della Repubblica, a suon di sostenibilità, pace, sviluppo economico e crescente potere internazionale, dove una leadership forte non esclude l’ “amore incondizionato” della solidarietà verso i meno abbienti. Il programma politico ufficiale di Kılıçdaroğlu, anzi, della coalizione dei 6, ha come parola chiave, invece, il ritorno al passato. Si prevedono riforme legislative ed esecutive per tornare alla Costituzione del 2018, cioè al periodo antecedente all’attuale sistema presidenziale, stabilendo che la presidenza della repubblica possa in ogni caso essere svolta per un solo mandato di 7 anni senza prevedere rinnovi, anzi, con una conseguente interdizione dalla vita politica a completamento dei settennato. Ci si impegna ad abbassare l’inflazione sotto i tassi spaventosi degli ultimi mesi, oltre a trovare soluzioni per essere più indipendenti possibile nella produzione di energia.
I due schieramenti condividono il mantra in politica estera di stampo ‘Atatürkiano’: “pace a casa, pace nel mondo”, ovvero, se c’è tranquillità all’interno dei confini si può promulgare la pace anche al di fuori di questi.
Chi è Kemal Kılıçdaroğlu?
Eletto “burocrate dell’anno” nel 1994 per la sua strenua battaglia contro la corruzione , soprannominato il “Gandhi turco” non solo per la sua somiglianza fisica al grande pacifista, ma anche per la sua indole calma, onesta e affidabile, Kemal Kılıçdaroğlu è un economo e ha lavorato per molti anni per il Ministero del Tesoro e della Finanza. Ha 75 anni, è nato nell’Anatolia colpita dal sisma, e appartiene alla minoranza degli Alevi, dettaglio che potrebbe valergli i voti di quella comunità spesso poco rappresentata. Fa parte del CHP sin dal 2002, ne è a capo dal 2010, ma il suo profilo politico è divenuto più popolare anche all’estero quando nel 2017 ha guidato la marcia di protesta da Istanbul ad Ankara.
Il ruolo chiave dell’HDP
L’alleanza che sfida il potere di Erdoğan viene dallo stesso presidente definita la “Tavola dei 7” e non dei 6, implicando la partecipazione del partito curdo HDP (Halkların Demokratik Partisi) il cui ruolo nelle prossime elezioni potrebbe essere chiave. Il suo leader, Selahattin Demirtaş, continua a svolgere la sua attività politica dal carcere, e nei giorni scorsi si è speso per appianare le tensioni tra Akşener e il resto della coalizione di opposizione, la più restia anche a un dialogo coi curdi. L’HDP ha dimostrato apertura nei confronti di Kılıçdaroğlu che, tuttavia, ha bisogno di gestire al meglio questa collaborazione per non essere tacciato di connivenza con i terroristi del PKK. Il popolo curdo, però, è quello che più ha sofferto la devastazione del terremoto che ha colpito il sud-est del Paese: è la fetta di popolazione che stenta a riaffidare il Paese nelle mani dell’AKP, nonché quella più arrabbiata anche e soprattutto per la gestione innegabilmente monca dell’emergenza. Conquistare il loro consenso potrebbe quindi essere decisivo nel determinare tanto la vittoria quanto la sconfitta.
Le tensioni tra HDP e İyi Parti sono un punto scoperto ed è in questa spaccatura che l’AKP potrebbe inserirsi, così come la difficile condizione delle zone colpite dal sisma e il dichiarato stato d’emergenza permetterebbe al governo attuale di ostacolare, volendo, le iniziative di campagna elettorale dell’opposizione.
In questo ultimo mese le metafore con le macerie non sono mancate: per molti commentatori, il governo di Erdoğan ha già fallito, ma rimettere insieme i pezzi prima che sia troppo tardi, ancor prima di potersene accorgere, insieme alla debolezza della leadership alternativa potrebbe regalargli una nuova vittoria. In fondo, nei suoi momenti più frammentati e incerti, la Turchia ha sempre preferito la sicurezza del conosciuto anziché buttarsi in una nuova sfida. I prossimi 60 giorni saranno decisivi per capire in che direzione guardare e andare.