Breve guida ai documentari sulla guerra in Ucraina presentati alla 73° Berlinale, dallo statunitense Sean Penn al polacco Tomasz Wolski.
Mentre la Berlinale 2022 ha avuto luogo nei giorni immediatamente precedenti all’invasione russa, l’anniversario del 24 febbraio cade proprio nel mezzo della programmazione del festival cinematografico. Non bisogna stupirsi di conseguenza della presenza di numerosissimi documentari dedicati o legati in qualche modo alla guerra in Ucraina. Se l’argomento ha certamente un’importanza epocale, non necessariamente ne deriva anche una qualità intrinseca delle opere presentate. In ogni caso emergono molti film meritevoli di essere tenuti in conto.
Superpower
L’attesissimo documentario di Sean Penn su Zelensky – che l’attore americano stava girando in Ucraina proprio nei giorni dell’invasione – è di certo il film che verrà più diffuso, ma non è il migliore. Un documentario molto statunitense che imbocca continuamente lo spettatore delle nozioni più basilari riguardanti l’Ucraina post-Maidan, evitando un’approfondimento delle questioni geopolitiche che hanno portato all’invasione – come invece ha fatto in modo molto sottile ed astuto Oliver Stone nella sua intervista di quattro ore a Vladimir Putin.
Quando giunge al 24 febbraio, un’ulteriore errore: il protagonista a questo punto è Sean Penn, allo spettatore è concesso osservare i suoi spostamenti, la sua visita sul fronte, la sua fuga in Polonia quando le forze russe invadono Kyiv. Più che un ritratto di Zelensky, il film diventa quindi un resoconto dell’ammirazione di Penn per la figura del presidente ucraino.
Bisogna concedere all’opera alcuni meriti: riesce a trasmettere la sensazione di pericolo imminente ed improvviso che si è respirato nel giorno dell’invasione, e a mostrare attraverso alcune interviste fatte prima e dopo a cittadini ucraini i cambi di opinione riguardo al proprio leader. Nei 10 minuti dedicati alle interviste di Penn a Zelensky, di cui una particolarmente suggestiva avvenuta nei giorni subito dopo l’invasione, si può notare il visibile affatticamento da stress nei lineamenti del suo volto. Resta, in ogni caso, un’occasione mancata per tracciare il ritratto di quella che ormai è una delle figure storiche che certamente verranno maggiormente analizzate.
Iron Butterflies
Film presentato al Sundance, e riproposto a Berlino, è una ricostruzione delle indagini avvenute in seguito all’abbattimento del volo Malaysian airlines MH17 sopra i cieli del Donbas nella primavera del 2014. L’esposizione della vicenda avviene attraverso un flusso di immagini, più che di parole. Un rimontaggio delle varie conferenze stampa tenute dalla squadra internazionale che ha compiuto l’immagine, ma anche delle registrazioni radar, nonchè i notiziari filorussi, posti in contrasto con quelli filoucraini. A questi si aggiungono anche i video di propaganda dimostrativi degli anni ’90 delle capacità del lanciamissili russo che ha provocato la tragedia, o la narrazione militarista russa che si esprime anche nei giocattoli, posto in contrasto con l’uso di disegni di bambini per rievocare, in modo particolarmente disturbante, i momenti finali del volo.
Altro elemento interessante è la presenza di arte performativa, di scene di danza contemporanea che riproducono alcune delle dinamiche del conseguente conflitto mediatico delle fake news. Certamente un’opera che si distingue per un taglio quasi sperimentale, con il quale equilibria la mancanza di approfondimento in alcune questioni, tra cui alcuni dettagli dell’indagine, e che non riesce ad evitare un allineamento di posizione immediato nel suo resoconto.
Eastern Front
Co-regia tra Vitaly Mansky, che negli scorsi anni si è molto dedicato alla Russia di Putin ed all’Ucraina post-Maidan, e
We will not fade away
L’opera dall’argomento più particolare tra i film inclusi in questo compendio, We will not fade away segue le vicende di un gruppo di adolescenti che vivono nella regione di Luhansk, e che nel 2019 hanno avuto l’opportunità di partecipare ad una scalata nella catena dell’Himalaya, organizzato da un ex scalatore ucraino. Una storia di speranze e sogni, e di formazione, che pur rientrando nel genere documentario parte usando il linguaggio dei film di finzione, e che mette seriamente in dubbio la separazione del cinema documentario come di un genere minore rispetto al cinema di finzione.
Sebbene il ritratto dipinto dalla regista Alisa Kovalenko è ottimista e speranzoso, l’epigrafe finale riporta alla realtà contemporanea: i protagonisti della vicenda in questo momento si trovano in una zona occupata dall’esercito russo e rischiano di essere forzosamente arruolati per combattere contro i propri compatrioti. Un epilogo agghiacciante.
In Ukraine
Probabilmente il migliore dei documentari presentati alla Berlinale è il film diretto dal polacco Tomasz Wolski, già regista documentaristico ben stabilito sullo scenario est europeo (tra l’altro, frequentemente presente al Trieste Film Festival), ed il direttore della fotografia Piotr Pawlus, che si è recato un Ucraina nell’estate del 2022. Privo di narrazione o commento, è un racconto che avviene per immagini statiche, simile alle opere di Sergei Loznitsa come Factory o Maidan (non a caso, Wolski ha collaborato recentemente come montatore con il regista ucraino), con una forza evocativa incomparabile.
Dalle prime scene, in cui si osserva i carri armati russi sulle strade, distrutti ed arrugginiti, alla scena in cui un gruppo di bambini gioca “alla guerra” e crea un finto posto di blocco, come fanno i veri soldati sul territorio, alla sequenza che ha luogo vicina al fronte del Donbas, il film sceglie di mostrare la vita quotidiana in tempi di guerra, soffermandosi sulle esperienze dei civili, pressochè totalmente evitando di mostrare il conflitto diretto. Forse il film che meglio riesce a trasmettere il senso di quello che è avvenuto nel corso dello scorso anno, che riesce ad evitare di diventare un’apologia o un elogio idealistico.