Uno dei film più particolari della Berlinale è Műanyag égbolt (White Plastic Sky) di Tibor
Ormai è un principio cardine della narratologia tenere conto del fatto che, a partire da Omero fino a Joyce, nulla può essere interamente originale. Nel caso di un sottogenere narrativo come la fantascienza distopica/post-apocalittica, essendo il campo ancora più ristretto, ancora meno spazio rimane per creare qualcosa di interamente inedito. Ciò che conta è il risultato del rimescolamento di topoi e di struttre narrative pre-esistenti, che nel caso di White Plastic Sky riesce a dar luogo ad un’opera unica, pur avendo evidenti similitudini con altre distopie del cinema recente: i primi venti minuti del film ricordano molto In Time, il film del 2011 del maestro della fantascienza contemporanea Andrew Niccol, in quanto ruolo centrale viene dato al tempo di vivere concesso ai cittadini di una Budapest del 2123. Eppure, il resto della narrazione procede in una direzione completamente diversa ed imprevedibile. Pur essendo presenti alcuni elementi ricorrenti delle distopie, tra cui la fuga dal sistema, il contrasto tra individuo e società, difficilmente si potrebbe paragonare il tragitto percorso da Stefan (Tamás Keresztes) e Nora (Zsófia Szamosi) a quello di altre coppie che abbandonano le loro società, come quello di Winston e Julia in 1984 di Orwell o in altre opere inserite in questo genere.
In White Plastic Sky manca un sottotesto politico che caratterizza spesso le distopie, ma questo perché non è un film che intende prendere una posizione sull’attualità o trasmettere un contenuto, quanto narrare uno stato d’animo, immaginare la speranza in un futuro senza speranza, come quello mostrato nell’opera: un mondo dal paesaggio marziano, completamente desolato, con città protette da cupole di vetro che ricordano gli habitat previsti dalle agenzie spaziali per colonizzare il pianeta rosso. Curiosa la scelta di presentare l’Ungheria come ambientazione, con la presenza di scenari devastati di “Kádár-kocka“ (le caratteristiche case di pianta quadrata di era sovietica), inusuali per il genere. Chiaramente dal parallelismo visivo con Marte risulta, anche se in forma minima, un contenuto ecologico, ma che opera un approccio al rapporto tra l’umano e la natura in termini completamente diversi da quelli soliti: per l’uomo, la soppravvivenza prevvede la trasformazione dei corpi in piante, in alberi, una conseguente metamorfosi totale dell’uomo nella natura, un’idea di nuova rinascita del genere umano in una forma vivente completamente diversa.
Le immagini spettacolari di White Plastic Sky ne comprovano la necessità della forma animata. La tecnica utilizzata è il rotoscope, sistema che permette di strutturare le linee dell’animazione in base ai movimenti degli attori, ma se in opere precedenti che sfruttano questa tecnica, come A Scanner Darkly di Richard Linklater, la colorazione e l’animazione sono generati da un computer, per questo film si è scelto di utilizzare il talento degli animatori, che hanno dovuto ridisegnare l’animazione usando le registrazioni rotoscopiche di partenza. A questo si aggiunge l’utilizzo di ambientazioni in 3D per ospitare personaggi in 2D, secondo un sistema già visto in Il Pianeta del Tesoro, crasi che crea un sistema visivo inusuale e notevole.
White Plastic Sky è la seconda co-produzione tra Ungheria e Slovacchia che dà luogo ad un’opera fantascientifica, in seguito ad Ordinary Failures di Cristina Grosan (che invece, al contratio di White Plastic Sky, era in lingua slovacca). Il film di animazione è stato presentato alla Berlinale nella sezione “Encounters”.