È trascorsa una settimana dal devastante terremoto che ha colpito la Turchia meridionale e la Siria settentrionale lo scorso 6 febbraio 2023. Al momento (13 febbraio) i morti sono più di 30.000, con oltre 900.000 sfollati in entrambi i Paesi. Una disastro che in Turchia ha colpito territori già profondamente segnati dalla crisi economica e dalla vicina guerra coinvolgendo 13.4 milioni di persone, ovvero il 15% dell’intera popolazione turca. Un’area vastissima che, paragonata all’Italia, avrebbe compreso Milano, Bologna e Roma messe insieme.
Il ruolo di Twitter e gli aiuti umanitari internazionali
Twitter, piattaforma cruciale in molti dei momenti della storia recente turca, anche questa volta a tratti silenziata dal governo a poche ore dalla prima terribile scossa, ha invece permesso a molti di salvarsi pubblicando il proprio indirizzo e la propria posizione, affermando di essere vivi e di cercare aiuto.
Come l’invasione russa in Ucraina, così anche questo terremoto è probabilmente il primo a cui assistiamo in diretta pur non essendo sul posto, e non guardandolo dagli occhi dei media, ma delle stesse persone coinvolte. Sono migliaia i video della devastazione, dei palazzi sgretolati e accartocciati su loro stessi, delle case sventrate e degli oggetti personali coperti di polvere. Delle fondamenta che sono diventate trappole per chi, sotto le macerie, si salva anche dopo più di 100 ore: sono soprattutto bambini e neonati, in uno strazio che nessuno mai potrà dimenticare, in particolare i turchi.
Turchi già profondamente colpiti dall’inflazione galoppante: il bisogno di aiuto è tale che perfino le dinamiche di politica internazionale sono venute meno. Tra le più eclatanti: l’aiuto di Israele, la Grecia, che è stata tra le prime a venire in soccorso, e in Armenia, la dogana Alican a confine con la Turchia che è stata riaperta per la prima volta dopo trent’anni per lasciar passare gli aiuti umanitari inviati dal governo di Erevan.
Per quanto sia il momento del lutto, del rispetto e del cordoglio, è complicato non pensare non solo alle ripercussioni che questi aiuti internazionali avranno in futuro, ma anche e soprattutto a quanto questa catastrofe possa rivelarsi tale per l’attuale presidenza turca in campagna elettorale. Non è un’ossessione dell’Occidente per la figura di Erdoğan, e neppure un “buttarla in politica” come ricorda la giornalista Dağan Irak citando un detto turco.
Le elezioni imminenti
Il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan ha tempestivamente decretato 90 giorni di stato d’emergenza: sono anni che la Turchia esce da uno stato d’emergenza all’altro, situazione che permette al governo di prendere provvedimenti straordinari a suo favore.
Nel 1999 a distanza di pochi mesi ci furono due terremoti di magnitudo poco inferiore a quest’ultimo: il primo, il 17 agosto 1999, con epicentro a Izmit, distrusse anche parte della città di Istanbul causando più di 17000 decessi. Il secondo fu il 12 Novembre a Düzce, sempre in area nord-anatolica. L’allora primo ministro, per giunta neo-eletto, Bülent Ecevit rimase in carica fino al 2002 diventando l’ultimo primo ministro non-AKP del trascorso politico recente. Sebbene la sua carica, sostenuta dal partito DSP (Demokratik Sol Parti) sia stata quella a sinistra più votata della storia, si ritiene che proprio la sua gestione post-sisma abbia spianato la strada al trionfo di Erdoğan.
Questo terremoto, quindi, potrebbe seppellire anche Erdoğan. Si parla di spostare le elezioni prolungando ulteriormente lo stato d’emergenza, ma se questo non dovesse avvenire e si andasse a votare il 14 maggio, difficilmente le persone colpite riusciranno ad esprimere il proprio voto proprio quando il dolore avrà lasciato posto alla rabbia. Se l’AKP, invece, continuerà a far leva sul senso di unità nazionale, silenziando le critiche mosse dall’opposizione mentre procede a una ricostruzione rapida delle città colpite, per quanto complicato, la popolazione potrebbe continuare ad affidarsi al governo attuale.
La cementificazione incontrollata
L’altro grande quesito riguarda l’attribuzione delle responsabilità. Quante delle abitazioni crollate erano a norma e seguivano i nuovi decreti antisismici varati proprio dopo il 1999? E più in generale, quanto controllo c’era effettivamente sul rispetto o meno di queste regole in fase di costruzione?
Il 2023 era l’anno in cui, con ogni probabilità, ci sarebbe stata una nuova amnistia urbanistica (Imar Affi). Ad un giorno dal terremoto, i titoli di borsa turchi erano tutti comprensibilmente in picchiata tranne uno: quello delle società del cemento. Non è un segreto che il governo di Erdoğan abbia in questi anni preferito agevolare la costruzione massiccia di case, moschee, centri commerciali pena il destino di aree verdi, siti archeologici, luoghi pubblici e, soprattutto, luoghi non adatti ad accogliere i progetti voluti. È altrettanto risaputo che sono principalmente 5 le aziende che si sono occupate dei progetti infrastrutturali del Paese negli ultimi anni, soprannominate “la gang dei cinque“, vicine al presidente e tacciate di scavalcare gli appalti pubblici ed essere corrotte.
Ci sono già imprenditori arrestati con l’accusa di aver costruito edifici precari: uno è Mehmet Yasar Coskun, proprietario del Reinassance Residence andato distrutto nella provincia di Hatay, catturato mentre cercava di fuggire in Montenegro. Un altro, Hasan Alpargun, appaltatore di Adana, è in detenzione provvisoria a Cipro dove era già riuscito a scappare. In queste ore si registrano altri imprenditori edili in stato di fermo: sta per avviarsi una nuova caccia alle streghe come quelle a cui ci siamo abituati dopo il tentato colpo di stato del 2016?
L’assenza dell’esercito e il ritardo nei soccorsi
E ancora, il popolo turco potrà davvero andare oltre la convinzione di essere stato abbandonato a se stesso nelle prime ore seguenti al sisma? Come ricordato dall’artista turca Sina Ateş, nel 1999 circa 34.000 soldati arrivarono nei luoghi del sisma a poche ore dall’evento. Secondo il rapporto annuale del 2021 del Ministero della Difesa Nazionale turco, il numero totale di personale delle forze militari turche al momento è di 430.577 unità. A Malatya, una delle città colpite dal terremoto, il numero di personale attivo in due diversi comandi era di 120.000 soldati. Allora perché il 6 febbraio i soldati sono stati schierati solo a 19 ore dopo la prima scossa per un totale di 3.500 (0.8% totale del personale) per poi diventare 6.200 il secondo giorno e 16.785 il terzo?
Le testimonianze secondo le quali la gente ha dovuto scavare tra le macerie da sola per salvare i propri cari, mentre una perturbazione gelida sferzava l’aria delle zone colpite aggiungendo il peso della neve e il rischio di ipotermia sono sotto gli occhi del mondo. In tanti chiedono che il presidente esca dalla torre di cristallo del complesso monumentale in cui vive ad Ankara ora che buona parte dei suoi cittadini è senza un tetto sulla testa, alla faccia delle 10.000 lire turche (circa 500 euro) promesse ad ogni famiglia sfollata.
Sarà il silenzio dei morti a parlare, quello dei cadaveri che ancora aspettano di essere estratti, quelli già tumulati nelle fosse comuni. Altrettanto ascoltate dovrebbero essere le urla e i pianti dei circa 5000 bambini rimasti orfani.
foto: UK-ISAR Team, CC BY