Una parte importante della società serba, in Serbia e in Republika Srpska (RS, l’entità della Bosnia-Erzegovina a maggioranza serba), da alcuni anni si è lanciata in una pericolosa opera di glorificazione dei criminali di guerra, come l’ex generale Ratko Mladić, condannato a vita per crimini di guerra e per il genocidio di Srebrenica, e l’ex leader politico Radovan Karadžić, considerato, insieme ai criminali di guerra serbi condannati Biljana Plavšić e Momčilo Krajišnik, tra i fondatori della RS. Tutto ciò sotto il silenzio impassibile delle istituzioni di Belgrado.
La costruzione di un vittimismo parallelo
Domenica 5 febbraio, Sarajevo ha celebrato il 29° anniversario del massacro di Markale. Per l’occasione, il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, recentemente rieletto presidente della RS, ha dichiarato che quanto successo a Markale “è stato usato come pretesto per i bombardamenti NATO in RS” e che il popolo serbo fu “accusato ingiustamente” per quel massacro (e per quello seguente, avvenuto il 28 agosto 1995, sempre nel mercato cittadino di Markale). La stessa domenica, nei pressi di Banja Luka, si sono tenute le celebrazioni dell’81° anniversario dei crimini commessi contro i serbi durante la Seconda guerra mondiale: per l’evento, Dodik ha dichiarato che la RS rappresenta “una risposta onesta” alle sofferenze patite dai serbi durante il secondo conflitto mondiale, aggiungendo che l’entità incarna la volontà di “giustizia per i serbi assassinati”.
Precedentemente, simili atteggiamenti da parte della leadership serbo bosniaca erano stati ribaditi durante le recenti celebrazioni dell’orgoglio patriottico serbo del 9 gennaio in RS, avvenute quest’anno a Sarajevo Est, e non a Banja Luka come di consueto. Come ogni anno, il presidente Dodik non ha fatto mistero dei propri entusiasmi per la parata e per la storia della sua Republika, in barba alla decisione del 2021 dell’Alto Rappresentante in Bosnia di stabilire pene detentive per chiunque “condoni pubblicamente, neghi, banalizzi grossolanamente o cerchi di giustificare” i crimini di guerra commessi in Bosnia, continuando al contempo la propaganda per il suo agognato sogno secessionista.
Sebbene i due soggetti adoperino il nazionalismo in modo diverso e con diversi obiettivi, le mosse di Dodik sembrano ricalcare quelle del presidente serbo Aleksandar Vučić e della sua squadra di governo: entrambi infatti intendono creare e modellare, attraverso un pericoloso revisionismo storico, una sorta di vittimismo speculare a quello bosniaco. L’ultimo episodio risale all’agosto scorso, quando al presidente Vučić venne negata – con le conseguenze propagandistiche del caso – la possibilità di visitare il campo di concentramento di Jasenovac, luogo simbolo delle violenze perpetrate dallo Stato indipendente di Croazia durante la Seconda guerra mondiale. Per la parata del 9 gennaio, tuttavia, Vučić non ha rilasciato alcun commento o dichiarazioni ufficiali, rendendo ancor più stridente il ricordo della sua prima visita ufficiale (in Bosnia) in veste di premier neoeletto – nel 2014 – in cui dichiarava di essere arrivato a Sarajevo “da amico, e con il cuore aperto”.
Il vento del nazionalismo
Le sempre più reiterate dimostranze di orgoglio patriottico in RS e in Serbia sono l’eco di un sentimento che da anni soffia sul vento del nazionalismo serbo, un nazionalismo che da qualche tempo si è materializzato anche a livello visivo, diventando immediato e accessibile alle masse attraverso scritte, slogan e murale in giro per le città di Serbia e RS.
Era il novembre del 2021 quando il quartiere Vračar di Belgrado fu al centro dell’attenzione mediatica per un murale dedicato a Ratko Mladić, raffigurato nel saluto militare, con lo stemma del Partizan e la scritta “Generale, un grazie a tua madre”. Da allora, sui muri di Belgrado, Novi Sad, Banja Luka e altre città tra Serbia e RS, si moltiplicano le scritte “Ratko Mladić eroe nazionale”, tutte uguali, presumibilmente realizzate con gli stessi stencil, così come uguali sono i ritratti stilizzati del generale Mladić (e di Draža Mihailović, il leader del movimento cetnico durante la Seconda guerra mondiale) che sempre più frequentemente capita di trovare agli angoli delle strade o sui palazzi. Per i gruppi di estrema destra, Mladić incarna l’eroe che si è opposto alla pressione dei popoli musulmani nei Balcani. Per tutti gli altri, però, l’ex generale resta un criminale di guerra che non dovrebbe essere raffigurato e celebrato sui muri delle città.
Il silenzio di Belgrado
Il silenzio di Belgrado su questa – sempre più visibile – escalation nazionalista è ormai un dato di fatto. Lo stesso, inaccettabile silenzio che ha scandito, ancora una volta, l’indifferenza di Belgrado in occasione del (forse più) grande argomento tabù in Serbia: il genocidio di Srebrenica. Ma se a livello istituzionale il silenzio la fa da padrone, il nazionalismo continua a persistere nella società serba, tollerato dalle autorità e a volte usato dal presidente e dal governo per mantenere il controllo, e il consenso, nel paese.
Il nazionalismo, difatti, è spesso funzionale al regime del presidente Vučić. Basti pensare alla gestione delle tensioni tra Serbia e Kosovo, ai rapporti con la Russia, ai toni usati dai media o alla dialettica con buona parte dell‘opposizione, la cui retorica, apertamente nazionalista, serve spesso a rappresentare il presidente della Repubblica come unica garanzia di stabilità agli occhi dei partner occidentali. In questo modo, mentre all’interno si mantiene un potere incontrastato su ogni ambito della società, allontanando la Serbia dagli standard democratici, all’esterno si presenta un’immagine moderata, ben lontana dal Vučić di qualche anno fa, sodale del criminale di guerra Vojislav Šešelj e ministro del regime di Slobodan Milošević.
Grazie al suo operato, e ai suoi silenzi così carichi di messaggi politici, Vučić rientra in un’immagine autocratica che aderisce a un preciso copione per il consolidamento del potere. Un potere che poggia le proprie basi anche, e soprattutto, su questi silenzi istituzionali che strizzano l’occhio, con malcelato compiacimento, alla componente nazionalista della società serba, tollerando quindi qualsiasi manifestazione popolare di questo nazionalismo sempre più invadente, e creando ad hoc i nemici del popolo serbo, così da legittimare l’installazione e la prosecuzione del potere politico incontrollato.
Questi nemici sono, a turno, i bosgnacchi, i kosovari, la NATO, le opposizioni, la memoria storica quando non riconosce il martirio del popolo serbo (da Kosovo Polje nel 1389, alla Seconda guerra mondiale, fino alle guerre di fine anni ’90). Una retorica nazionalista che accomuna Republika Srpska e Serbia, le dichiarazioni roboanti di Dodik e i silenzi, ancora più assordanti, di Vučić.
Photo: balkans.aljazeera.net