I 700 anni di Vilnius, città di stranieri

Nel meraviglioso libro Vilnius, city of strangers di Laimonas Briedis c’è una citazione del fotografo Jan Bułhak, nato in un’epoca in cui i confini tra Bielorussia, Polonia e Lituania erano liquidi anche a livello di mappatura, che riassume bene il sentimento che per anni è rimasto intorno a questa città, capitale di un potentissimo Granducato prima e poi marginale periferia dell’impero russo:

So here is our Wilno: some say the city is dirty, poor, and dull; others assert that is a lovely, exceptional and noble place. What can we say about it today? From which side should we begin our investigation of our Wilno, sunken deep in a two-river valley, surrounded by mountainous greenery and cragged with graceful church towers in the shape of spiral-like poplar trees of an old country manor?

Quest’anno cade il 700º anniversario dalla fondazione della capitale lituana, e celebrazioni ed eventi sono stati organizzati per questo compleanno speciale. Secondo la leggenda, la capitale venne fondata dal granduca Gediminas dopo che in un sogno gli era apparso un lupo ululante. Per l’oracolo a cui il regnante si era rivolto, il sogno significava che una città doveva essere costruita per proteggerne il potere e aumentare il prestigio suo e della Lituania nel mondo allora conosciuto. La torre del castello che ancora resiste sulla collina più alta nel centro della città non solo è un ottimo punto di osservazione per vedere se eventuali nemici si avvicinano, ma anche una finestra sulla trasformazione fulminea che si è abbattuta sulla città nell’ultimo decennio.

Sono arrivato per la prima volta a Vilnius nel 2014: c’erano ancora le litas, molti dei Verslo centras (letteralmente traducibile come Centri d’affari, ma è un modo cool per dire uffici) forse non erano nemmeno nella testa dei loro architetti e dei piani urbanistici di sviluppo, e vicino al centro commerciale Akropolis si stagliava la spettrale carcassa del Nacionalinis stadionas, dal quale si sperava ancora di ricavare qualcosa di buono. Il cinema Lietuva si trovava ancora in piedi in Pylimo gatvė, così come le statue erette per i soldati sovietici nel cimitero di Antakalnis. All’epoca non conoscevo bene la Lituania e la sua storia ricca e travagliata, ma ero agli inizi del mio innamoramento autentico e molto naive con l’Europa centro-orientale, cominciato con i corsi all’università e saldato da un Erasmus in terra polacca. Era anche l’anno in cui la Russia aveva lanciato la sua prima invasione dell’Ucraina senza che noi ce ne rendessimo realmente conto, spacciandoci per i Kissinger della situazione e osservandoli con gli occhi arroganti dei realisti che mettono geopolitica e Risiko sullo stesso piano.

Da quella prima volta, per due anni sono tornato a Vilnius a intermittenza, per poi stabilirmici definitivamente nel 2016 e renderla quella che è ancora oggi la mia casa. Non voglio soffermarmi su tutte le turbolenze emotive che fanno parte quotidianamente della vita di un expat (forse questo non è il posto giusto per farlo), ma mi sembrava giusto dedicare del tempo a tributare un piccolo omaggio ad un luogo che non è rimasto mai uguale a se stesso.

A partire dal nome: Wilno, Wilna, Vilna, Vilne, Vilnius. La radice è la stessa, ma tutti i modi con cui viene chiamata la città danno un’idea di come questo luogo dal momento della sua fondazione ha attraversato continue trasformazioni, convivenze e lotte tra molteplici lingue e culture diverse, occupazioni, invasioni, fermento culturale ma anche grigio conformismo del pensiero. Tuttavia, il lato che mi ha sicuramente legato a Vilnius è la sua non immediata accessibilità: la considero come un grande nascondiglio di gemme nascoste, che devi avere voglia di scovare. Addentrandoti tra i vicoli del vecchio ghetto ebraico, nelle viuzze nascoste tra gli edifici in stile barocco del 600, tra gli esperimenti modernisti lanciati dal regime sovietico, lungo il fiume Vilnia, dove si affacciano ancora le vecchie casette di Užupis: esperimento libertario del primo tentativo di indipendenza dalla dittatura che adesso affronta l’avanzare della gentrificazione. Vilnius non ti spalanca le porte: sei tu che devi essere essere pronto ad attraversare la storia di una città considerata polacca, ebraica, lituana, bielorussa. Un luogo considerato proprio da quattro nazionalità, ma allo stesso tempo mai realmente di qualcuno.

Sempre in “Vilnius, city of strangers“, l’autore scrive che “ognuno a Vilnius può essere uno straniero, ma non per via delle sue origini, ma perché la città è chiamata con così tanti nomi e ha attraversato così tanti momenti storici che difficilmente un singolo essere umano può essere legato a tutti questi particolari“. Rileggendo questa frase, mi sono sentito nuovamente fortunato a poter contribuire in qualche modo alla storia di questa città: nonostante le difficoltà, è stimolante ricordarsi di vivere nel posto giusto per poter mettere sempre in discussione e rimodellare la propria identità. Vilnius conserva nell’immaginario di molti un fascino da città di frontiera, ma a differenza dei protagonisti del libro, molti stranieri ormai decidono di restarci, contribuendo anche al tentativo della città di liberarsi di molti stereotipi figli della cortina di ferro e di un’idea di Europa orientale come un monolito immobile.

Foto: Jan Bułhak, Aušros vartai.

Chi è Mattia Temporin

Nato a Rovigo, adottato da Bologna, ho conseguito la laurea triennale in Scienze storiche e quella magistrale in Relazioni Internazionali presso l'Alma Mater Studiorum. Ho vissuto 9 mesi a Tallinn, dove ho svolto lo SVE ( Servizio volontario europeo) in un Istituto comprensivo per bambini di lingua russa. Tra le altre esperienze all'estero, non posso dimenticare il mio soggiorno a Wroclaw, in Polonia, di 5 mesi. Attualmente vivo e lavoro a Vilnius.

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