di Davide Denti
“L’Unione Europea accede alla Convenzione Europea per la salvaguardi dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali”, statua perentorio l’articolo 6 del rinnovato Trattato sull’Unione. Ma a tre anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’articolo 6 resta inattuato. Certo, non si tratta di un compito semplice: non si è mai vista una integrazione tra due organizzazioni internazionali separate (l’UE e il Consiglio d’Europa, organizzazione “madre” della CEDU), in cui l’UE entrerebbe a far parte in parità con i propri stessi stati membri. Ma le questioni tecniche sono manna per i giuristi, e così già a fine 2011 era pronto un progetto di strumento giuridico per finalizzare l’adesione. Passa Natale, arriva il 2012, eppure nulla si muove.
Barbara Lochbihler (membro dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa) e Kerstin Lundgren (eurodeputato liberale svedese) hanno così richiamato l’attenzione dei legislatori dei paesi membri attraverso un appello, il 25 gennaio 2012, perché il processo di adesione non deragli. L’adesione dell’UE alla CEDU è necessaria a garantire la coerenza tra la giurisprudenza delle due corti (la Corte di giustizia dell’UE, a Lussemburgo, e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo), a sottoporre anche le norme europee allo stesso scrutinio in materia di diritti umani delle norme nazionali dei 27 paesi membri, e a creare uno “spazio comune europeo dei diritti dell’uomo”.
Dietro il blocco si intravede il veto di Londra. La Gran Bretagna non è mai stata una grande sostenitrice della Corte di Strasburgo, sin da quando, negli anni ’70, la CEDU si trovava a decidere sui casi dei prigionieri IRA torturati dagli agenti inglesi. Ma la pietra dello scandalo oggi, tra Strasburgo e Westminster, è dovuta a due tematiche: in primo luogo, la ripetuta richiesta della CEDU di modificare la norma che priva automaticamente i prigionieri delle carceri inglesi del diritto di voto; in secondo luogo, i sempre più numerosi casi riguardanti il divieto di l’espulsione di cittadini stranieri verso paesi a rischio, impopolari soprattutto quando non si tratta di biondi bambini bielorussi, ma di barbuti predicatori islamisti.
Nemmeno la nomina di un inglese, Sir Nicolas Bratza, a presidente della Corte di Strasburgo è servita a distendere i rapporti e a far riguadagnare credibilità alla Corte. Il populismo risorgente a Westminster e lo “sciovinismo costituzionale” del governo Cameron non hanno aiutato in questo. Infine la stampa britannica, tipicamente non incline ad apprezzare le istituzioni europee – né tantomeno a distinguerle l’una dall’altra – si è lanciata sulla tematica, proponendo in ultimo un referendum sull’adesione dell’UE alla Convenzione CEDU, se non il ritiro del Regno Unito dalla Convenzione CEDU, o addirittura dalla stessa Unione Europea.
Proprio ora il Regno Unito detiene la presidenza rotativa del Consiglio d’Europa, e ha l’incarico di organizzare una conferenza intergovernativa a Brighton, incaricata di esaminare e proporre soluzioni per il miglioramento del sistema di controllo della Corte di Strasburgo, in linea con le dichiarazioni di Interlaken 2010 e Izmir 2011. La bozza della dichiarazione di Brighton include diversi elementi consensuali, ma anche una proposta allarmante: che la Corte non giudichi su casi in cui abbia già giudicato una corte nazionale, a meno che questa abbia “chiaramente errato” o che il caso susciti una questione seria circa la Convenzione. Secondo Philip Leach, tale formulazione avrebbe l’effetto di restringere indebitamente il campo di azione della Corte. Alcuni casi chiave, come quello circa la conservazione per tempo indefinito dei dati personali (DNA e impronte digitali) di un milione di cittadini inglesi incensurati, non sarebbero in tal caso mai arrivati a giudizio: secondo la Camera dei Lord, tale procedura non violava il diritto al rispetto della vita privata, secondo la corte di Strasburgo sì. Il governo inglese cercherà di far passare tale formulazione nel testo finale della dichiarazione di Strasburgo, appoggiandosi alla complicità di altri stati poco contenti dell’azione della Corte – in primis Russia e Turchia. Starà agli altri 46 membri del Consiglio d’Europa tenere alta l’attenzione e far sì che nessun tentativo di limare le unghie ai giudici di Strasburgo possa passare indisturbato.
Scusami, Davide, ma se la Corte europea non potesse più giudicare un un caso già deciso da una corte nazionale, non si snaturerebbe completamente il suo mandato. Ad oggi, se non ricordo male, i giudici possono interpellare la corte nel corso del processo, in merito ad alcuni dubbi, ma i cittadini europei possono farlo solo dopo aver terminato tutti i livelli giurisdizionali del proprio Stato…
Inoltre, chi sarebbe incaricato di stabilire, in caso contrario, che la corte nazionale “abbia “chiaramente errato” o che il caso susciti una questione seria circa la Convenzione” ?