La tragedia di Dnipro usata per colpevolizzare gli ucraini

Un bambino è stato estratto cadavere dalle rovine del palazzo. Aveva un anno. Morto anche il padre. Sua madre è sopravvissuta, tirata fuori dalle macerie di Dnipro, sotto cui è rimasta sepolta tutta la sua vita. Tutta. E non c’è salvezza, non c’è scavo che possa restituirla. Sono morti in quarantaquattro là sotto, vittime di un bombardamento avvenuto il 14 gennaio scorso. Un centinaio i feriti, ma si continua a scavare. Una tragedia senza ragione. E adesso che dite? Cosa riuscite a dire? Che “il marketing bellicista usa questa tragedia per alimentare il conflitto” – bravi, come siete intelligenti e distaccati. E poi cosa dite, che non sento bene? “Non si tratta di un missile russo, ma di pezzi di contraerea ucraina” – e anche fosse, sarebbe comunque colpa di chi quel missile lo ha lanciato, no? O vogliamo ancora dire che, per evitare errore e incidenti, “gli ucraini dovrebbe smettere di difendersi”?

Avete detto che a Bucha erano manichini, mica morti ammazzati. Avete detto che il bombardamento all’ospedale pediatrico di Mariupol‘ non è mai avvenuto, che le vittime al teatro della stessa città era una frottola – una frottola con settecento morti – e avete fatto di tutto per diffondere teorie del complotto mossi non tanto da intelligenza con i russi, né da intelligenza in generale, ma da individualismo e narcisismo, dal bisogno di mostrare la vostra superiore acutezza svelando ipotetici complotti. Lo avete detto. Adesso cosa dite?

 

So cosa direte, che la distruzione del condominio di nove piani a Dnipro non è stato causato da un missile russo, ma da schegge dell’antiaerea ucraina. Lo ha affermato anche Aleksey Arestovich, consigliere del presidente Zelens’kyj, poi costretto a ritrattazioni e dimissioni. E questo cosa dimostrerebbe? Soltanto che la Russia bombarda le città e la contraerea ucraina fa quello che può, con armamenti non sempre all’altezza. La Russia colpisce i civili fin dall’inizio del conflitto, sparando sulle macchine in fuga da Kiev e Chernihiv – ve lo ricordate o no? – bombardando Mariupol’, ammazzando la gente a Bucha. Dnipro o non Dnipro, non cambia niente. La Russia non ha più missili di precisione, usa quelli a lunga distanza, poco accurati. Spara a casaccio. Che sul condominio siano cadute schegge di un missile colpito oppure un Kh-22 – come sostiene Kiev – non sposta di una virgola il discorso. Ma è sulle virgole, in guerra necessariamente non verificabili, che giocate la vostra partita seminando dubbio, gettando discredito, e infine alimentando l’idea che gli ucraini si ammazzino da soli e i russi, poveretti, siano accusati anche di quello che non fanno. In fondo, nemmeno la guerra fanno, no? Il solito copione. Usare la tragedia di Dnipro per colpevolizzare gli ucraini.

Farci un santino della resistenza ucraina non serve, come non serve nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma perché si produca un dibattito plurale e critico, occorre restare ancorati ai fatti e non sulle balzane teorie, o prezzolate bugie, di sedicenti esperti da talk-show e giornalisti che la menano con il neoliberismo, il pensiero unico bellicista, e altre amenità, mentre in Russia si compiacciono per “i fuochi d’artificio” lanciati su Dnipro. Occorre analizzare le molte concause che hanno portato a questo conflitto senza mai dimenticare chi ha sparato per primo. Occorre pretendere una pace che non sia disgiunta dalla giustizia e dal diritto.

C’è un precedente, quello della Bosnia Erzegovina, in cui si è lasciata marcire Sarajevo sotto assedio per quattro anni senza alzare un dito; in cui si diceva che le granate sul mercato se le lanciavano i musulmani da soli, mica i serbi dalle colline circostanti; in cui si è atteso il massacro di Srebrenica per intervenire e in cui, alla fine, giustizia non è stata fatta: Milosevic rimase al suo posto, i territori conquistati a colpi di pulizia etnica dai serbo-bosniaci di Mladic e Karadzic sono diventati un’entità politica riconosciuta – la Republika Srpska – riconoscendo all’aggressore il diritto di aggredire ancora. E così venne il Kosovo. Nei Balcani non si mandarono armi, e la guerra durò comunque dieci anni. Anche i musulmani bosniaci e i kosovari compirono alcuni crimini, ma non si deve mai equiparare le parti in conflitto, di fatto assolvendole tutte in nome di una comune brutalità. Le parti non sono tutte uguali, ci sono gli aggressori e gli aggrediti. E anche se questo alcuni non lo vogliono sentire, si tratta – ahimé – dell’unico dato di fatto da cui è possibile partire per descrivere l’abominio di questa guerra.

Photo from Valentyn Reznichenko, Head of the Dnipropetrovsk Region Military Administration – via war.ukraine.ua

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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