Cosa sta succedendo nel luogo dove si è consumato il genocidio di Srebrenica, oggi oggetto di un progetto di “ristrutturazione”? un grido d’appello.
di Aline Cateux e Florence Hartmann*
L’ex fabbrica di batterie a Potočari è attualmente in una fase di ristrutturazione senza precedenti che ha rovinato il paesaggio della memoria. Questo edificio storico fa parte del memoriale ufficiale del genocidio di Srebrenica insieme al luogo di sepoltura degli oltre 8000 ragazzi e uomini uccisi dalle forze serbe a causa della loro fede musulmana o delle loro origini culturali.
Lì, l’11 luglio 1995, migliaia di bosgnacchi terrorizzati avevano disperatamente cercato rifugio dopo che le forze serbe avevano preso di mira l’enclave assediata di Srebrenica. È servita come quartier generale delle forze di pace olandesi che avrebbero dovuto proteggerle dagli assalitori dopo la smilitarizzazione dell’enclave e la sua istituzione come “area protetta delle Nazioni Unite” nel 1993. Invece, i soldati olandesi le hanno consegnate alle forze serbe sotto il comando di Ratko Mladic che ha separato gli uomini e i ragazzi dalle donne.
Dal 1995 l’ex fabbrica di batterie, teatro di sofferenze e disagi di massa, luogo in cui molti hanno visto per l’ultima volta i propri cari prima che uomini e ragazzi venissero condotti alla morte, è stata conservata com’era, come resti materiali che rendono sempre presente il passato. È servita come costante promemoria per le vittime e per il mondo. Ha dato a chi la visitava un’idea di ciò che era accaduto nelle ore precedenti al più grande massacro sul continente europeo dalla seconda guerra mondiale. Un crimine che è stato qualificato genocidio da due tribunali internazionali.
La facciata della fabbrica è già stata modificata nel processo di ristrutturazione finanziato da TIKA (l’agenzia turca internazionale per la cooperazione) e il progetto – che prevede, in una seconda fase, il rimodellamento interno – mette a rischio l’intera struttura storico della fabbrica. Parti originali dell’edificio e parti che recavano tracce del delitto sono state asportate verso luoghi sconosciuti e si sospetta fortemente che siano state gettate via o addirittura vendute a una discarica.
Con i cordoni della borsa in mano alla Turchia, il progetto di ristrutturazione — lanciato senza un precedente dibattito pubblico e senza pubblicità — solleva il timore di una strumentalizzazione politica nel contesto della politica di soft power della Turchia e della diplomazia religiosa in Bosnia-Erzegovina.
Siamo ancora più preoccupate che le ambizioni politiche turche proprio in questo luogo possano riecheggiare o dare una mano alla logica malata dietro la condanna a morte pronunciata da Ratko Mladic nel discorso all’ingresso di Srebrenica l’11 luglio 1995 (“Diamo a questa città alla nazione serba… È giunto il momento di vendicarsi dei turchi.”)
La cancellazione del paesaggio della memoria del genocidio dei bosgnacchi di Srebrenica e il sovvertimento della sua dimensione universale è un disastro per la memoria locale ma anche per la memoria europea e mondiale.
* Aline Cateux, antropologa, vive a Sarajevo. Florence Hartmann è stata portavoce del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia.
Foto: Aline Cateux