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POLONIA: A processo la giudice che cercò di salvare la giustizia

Małgorzata Gersdorf non è una personalità nota da queste parti, ed è un peccato. È stata presidente della Corte suprema polacca fino al 2020, quando il suo mandato è scaduto ed è andata in pensione, ma Małgorzata Gersdorf è stata presidente della Corte suprema negli anni in cui il partito ultraconservatore al governo, Diritto e Giustizia (PiS), ha promosso una serie di leggi volte a prendere il controllo della corte stessa, minandone l’indipendenza e mettendo a rischio lo stato di diritto in Polonia. Małgorzata Gersdorf si è opposta. Ed è stata data in pasto ai media compiacenti, oggetto di una violenta campagna diffamatoria, additata come nemico del popolo ed espressione della “casta” che intende opporsi alla volontà della nazione, incarnata dal governo. Małgorzata Gersdorf ha cercato di difendere la democrazia in Polonia, e adesso è finita sotto accusa.

Le accuse

Accusata di cosa? Per capirlo occorre tornare alle riforme della Giustizia promosse dal PiS negli ultimi anni. In particolare a quella che riformava il Consiglio nazionale della magistratura (KRS), l’organo che salvaguarda l’indipendenza dei giudici. Si tratta di un organismo composto da venticinque membri: quindici giudici scelti dai magistrati stessi; il presidente della Corte Suprema; il presidente della Suprema corte amministrativa (NSA); quattro senatori e due deputati scelti dal parlamento; il ministro della Giustizia; e una personalità nominata direttamente dal presidente della Repubblica. Una riforma del 2017 ha introdotto una norma per cui i quindici membri togati vengano scelti dal parlamento e non più dai giudici stessi.

La norma comprometteva l’indipendenza della magistratura e fu impugnata da Bruxelles che arrivò ad attivare l’art.7 del Trattato dell’Unione Europea minacciando di sospendere il diritto di voto della Polonia nelle decisioni comunitarie. La battaglia è durata anni, sia all’interno della Polonia, sia a livello internazionale. Nel gennaio 2020 una sentenza della Corte suprema – presieduta proprio da Małgorzata Gersdorf – ha dichiarato illegittimi tutti i giudici del Consiglio nazionale della magistratura nominati dal governo a seguito della contestata riforma. In questo modo, un’organo di giustizia polacco – la Corte suprema, appunto – interveniva ad annullare la decisione governativa.

Ma una legge del 2017 – anch’essa varata dal PiS – stabilisce che un giudice è disciplinarmente responsabile se mette in discussione l’efficacia della nomina di un altro giudice. In poche parole: la Corte suprema non avrebbe potuto esprimersi contro la nomina dei quindici giudici del Consiglio nazionale della magistratura perché un’altra legge “trappola” impediva di farlo. Di questo è dunque accusata la Gersdorf; di aver sentenziato malgrado una legge glielo impedisse. Ad aprire il procedimento contro di lei è stato Piotr Schab, massimo funzionario disciplinare per i giudici, e stretto collaboratore del ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro. In sostanza, due anni dopo, il governo vuole punire la giudice – ormai in pensione – ribadendo la propria autorità in materia giudiziaria.

Vecchie ruggini

Il governo, guidato dagli ultra-conservatori di Diritto e Giustizia (PiS),  voleva liquidare la Gersdorf già nel 2018, quando fece passare una contestata legge che obbligava i giudici della Corte suprema ad andare in pensione a 65 anni, ovvero con cinque anni di anticipo rispetto alla legge precedente: un modo, legale per carità, di sbarazzarsi della vecchia e riottosa guardia per sostituirla con giudici vicini al partito di governo. Una purga mascherata da riforma. Ovviamente, Małgorzata Gersdorf  si oppose. Continuò ogni giorno ad andare al proprio ufficio. E non da sola. Ogni giorno una folla di persone l’accompagnava con cartelli e cori di sostegno. Il presidente della Repubblica, Andrzej Duda, benché membro del PiS, dovette fare un passo indietro e aspettare il termine naturale del mandato della Gersdorf. Fu così che la giudice rimase al suo posto fino al 2020, quando emise la contestata sentenza.

Le accuse contro Gersorf sono l’ultimo atto di un conflitto di lunga data sullo stato di diritto in Polonia sotto il governo del PiS, che è stato accusato da vari organismi polacchi e internazionali di minare l’indipendenza giudiziaria e manomettere la democrazia.

Una lunga guerra

In particolare, le riforme giudiziarie volute dal PiS hanno portato la Polonia sotto la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea. Per tutta risposta, nell’estate 2021 il Tribunale costituzionale polacco ha sostenuto che le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea (ECJ) relative alla magistratura violano la costituzione polacca, dichiarando tra l’altro per la prima volta incostituzionali disposizioni dei trattati Ue. Nell’ottobre dello stesso anno il Tribunale ha dichiarato parti del diritto europeo incompatibili con la carta costituzionale polacca, che ha la precedenza su di esse.

Si è così arrivati ai ferri corti: il Parlamento europeo, riunito a Strasburgo, approvò in ottobre una risoluzione secondo la quale «Il Tribunale polacco manca di validità giuridica e indipendenza, ed è privo di qualifiche per interpretare la costituzione del Paese». Annunciando l’ultima procedura di infrazione, il commissario Ue per l’Economia Paolo Gentiloni aggiunse: «Riteniamo che la Corte costituzionale polacca non risponda più ai requisiti di un tribunale indipendente e imparziale». La lunga guerra sembrava così giunta allo scontro finale: «Un attacco alla costituzione polacca e alla nostra sovranità», aveva tuonato il viceministro della Giustizia, Sebastian Kaleta, affilando le lame «Non è più una disputa legale, è un attacco alla costituzione polacca e alle basi dello Stato polacco», aveva aggiunto l’eurodeputata del Pis, Beata Szydło, commentando l’avvio della procedura d’infrazione.

A quel punto era ormai gennaio, e il governo avrebbe dovuto rispondere entro due mesi ai rilievi di Bruxelles. Ma una guerra più grande è infine giunta a sovrastare tutto. Lo scontro tra Bruxelles e Varsavia è rinviato sine die a causa della guerra in Ucraina che vede Varsavia in prima linea nel sostegno a Kiev e alla NATO. E a un alleato prezioso, che manda armamenti e accoglie milioni di profughi ucraini, si concede qualche agio. Abbastanza da consentirgli di tornare a fare il bello e cattivo tempo sulla questione della giustizia, perseguitando una giudice in pensione.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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