Due mesi dopo il voto, un’analisi delle elezioni svoltesi in Bosnia: chi sono i vincitori e gli sconfitti di questa tornata?
Il due ottobre scorso in Bosnia-Erzegovina, in un clima di grande incertezza, si sono tenute le elezioni generali per il rinnovo dei componenti di quello che è stato spesso chiamato il sistema politico più complicato al mondo. Il voto ha difatti riguardato la presidenza tripartita, ovvero i rappresentanti dei tre popoli costitutivi (bosgnacchi, croati e serbi) che per i prossimi quattro anni si alterneranno alla guida del paese, la guida delle due entità federate (la Republika Srpska, RS, e la Federazione di Bosnia Erzegovina, FBiH), e i dieci cantoni che formano la Federazione.
Le elezioni si sono svolte in un clima tutt’altro che disteso, inserendosi tra la crisi generata dalle spinte separatiste del leader serbo bosniaco Milorad Dodik, e la riforma elettorale voluta a urne chiuse dall’Alto rappresentante internazionale per la Bosnia Erzegovina, Christian Schmidt. Dopo il voto non sono inoltre mancate accuse di brogli e irregolarità. I risultati hanno portato a una sostanziale conferma di quanto previsto, rinnovando cioè il successo dei partiti di matrice etnica, ma non sono mancate le novità.
I risultati elettorali
I cambiamenti principali nelle ultime elezioni si sono registrati a livello di presidenza. Per il seggio bosgnacco, Denis Bećirović, candidato dei socialdemocratici (SDP) grazie al sostegno di undici partiti civici di opposizione, ha ottenuto il 55,78% dei voti su Bakir Izetbegović, il cui partito Partito di Azione Democratica (SDA) – ereditato dal padre Alija Izetbegović – era rimasto al potere dalla fine della guerra, registrando una sorprendente sconfitta. Altro importante risultato è giunto dalla riconferma di Željko Komšić del Fronte Democratico (DF) nella corsa per il posto croato alla presidenza, ai danni dei nazionalisti dell’Unione democratica croata di Bosnia (HDZ BiH). Tra i serbi bosniaci, invece, Milorad Dodik e Željka Cvijanović si “scambiano di posto” diventando rispettivamente presidente dell’entità a maggioranza serba e membro della presidenza della Bosnia-Erzegovina. Si tratta della prima donna ad essere eletta per ricoprire questa carica.
Se stringiamo l’analisi dei risultati a livello di entità, possiamo registrare altre tendenze interessanti. Nella RS, nonostante il partito di opposizione serbo-bosniaco di Jelena Trivić (PDP) abbia accarezzato la vittoria, ottenendo la maggioranza dei voti in centri importanti come Doboj e Bijeljina, l’SNSD di Milorad Dodik domina a tutti i livelli, forte di una coalizione che gode della maggioranza assoluta, con 56 deputati su 83. Per quanto riguarda la Federazione (FBiH), i partiti etnici hanno registrato i risultati migliori, in controtendenza con il voto per la presidenza. L’SDA è riuscito a rimanere primo partito – grazie ad un 25% – seguito dall’HDZ BiH al 14%, SDP al 13% e DF al 10%.
Proteste e trattative
Gli esiti delle elezioni sono stati accompagnati da varie accuse di brogli, con relative manifestazioni da parte dei cittadini, soprattutto in Republika Srpska. Il 6 e il 9 ottobre migliaia di persone si sono riversate per le strade di Banja Luka per contestare presunte irregolarità negli spogli elettorali, esigendo quindi il riconteggio delle schede. Il giorno seguente migliaia di sostenitori di Dodik – tra cui il regista Emir Kusturica – si sono riuniti nel parco Mladen Stojanović di Banja Luka in quello che era avvertito dai presenti come un “appello della patria” per chiedere il rispetto del voto a favore di Dodik.
Il 2 novembre, un mese dopo le votazioni, la commissione elettorale centrale ha infine pubblicato i risultati ufficiali, dando il via ai negoziati per formare le coalizioni di governo ai vari livelli. Il 29 novembre è stato firmato un accordo tra nove partiti sulla formazione del governo a livello di Bosnia Erzegovina. L’accordo è stato firmato – sotto la supervisione di Schmidt – da Dragan Čović dell’HDZ e dal leader del SPD Nermin Nikšić (a nome degli otto partiti che fino ad ora erano stati all’opposizione) e sancisce l’esclusione di SDA dai giochi politici dopo oltre vent’anni; tale documento definisce il programma di lavoro per il prossimo quadriennio, e si compone di tre parti, che vertono sull’integrazione euro-atlantica, sulla stabilità politica e lo stato di diritto, e sulla giustizia sociale e l’economia. Definendo l’accordo un’apertura verso “una nuova dimensione di comportamento nella politica e nella cultura politica della Bosnia”, Čović ha inoltre espresso la speranza di portare avanti il processo di adesione del paese all’Unione Europea il più velocemente possibile. In RS intanto, il 23 novembre il presidente Dodik ha conferito a Radovan Višković l’incarico di formare il nuovo governo dell’entità, che, come il precedente, conterà sedici ministeri.
La riforma di Schmidt
Tra le diverse manifestazioni tenutesi in ottobre, una di queste, quella del 24 ottobre a Sarajevo, chiedeva le dimissioni di Schmidt e l’annullamento della modifica alla legge elettorale da lui proposta. Christian Schmidt, oltre a supervisionare il rispetto di quanto stabilito a Dayton, ha il potere di prendere decisioni unilaterali e vincolanti qualora le istituzioni locali si dimostrassero incapaci di agire (i cosiddetti poteri di Bonn). La riforma di Schmidt riguarda il parlamento locale della Federazione, e stabilisce che se in un distretto uno dei tre popoli costitutivi non raggiunge il 3% della popolazione totale, questo non potrà eleggere un rappresentante della stessa etnia alla Camera dei Popoli (prima in ogni cantone veniva eletto un rappresentante per etnia, indipendentemente dalle percentuali). Recentemente, la Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina ha respinto la richiesta di sospensione temporanea delle modifiche elettorali imposte da Schmidt; secondo diversi esponenti locali, i cambiamenti imposti da Schmidt “non faranno che approfondire le divisioni etniche nel paese”.
Tuttavia, c’è chi crede che la riforma di Schmidt possa accelerare il processo di creazione della maggioranza in Bosnia, giungendo alla formazione delle istituzioni entro la fine dell’anno corrente, senza ricalcare le dinamiche del 2018, quando ci volle più di un anno per formare il governo centrale. Sebbene l’Alto rappresentante abbia sottolineato, riferendosi alla sua riforma, che serviranno ancora quattro anni per capire se questo cambio di sistema sarà davvero in grado di impedire un deterioramento dell’apparato politico bosniaco, il sistema elettorale in Bosnia rimane sostanzialmente incatenato ai propri grovigli: l’elezione dei rappresentanti delle varie etnie resta infatti un meccanismo complesso e poco efficace. Se le elezioni dirette potrebbero rappresentare una soluzione a questo problema, resta forte l’ipotesi che il sistema politico in Bosnia-Erzegovina continuerebbe ad essere troppo burocratico, costoso, e troppo etnicamente orientato.
Vincitori e vinti
Per la politologa Tanja Topić, i veri sconfitti di queste elezioni sono gli elettori, e quindi i cittadini: “I numerosi casi di frode, irregolarità e corruzione che hanno caratterizzato le elezioni e la formazione del governo mettono in discussione la legittimità del processo elettorale”. Secondo la Topić, il risultato è una delusione sempre più profonda nei confronti del sistema elettorale e del gioco politico, fatto di alleanze e schemi poco chiari che contribuiscono a far sentire molti elettori “traditi e sfiduciati nei confronti delle istituzioni nazionali e internazionali”.
Dal canto suo, Stefan Schennach, a capo della delegazione PACE (Parliamentary Assembly of the Council of Europe), lancia un messaggio di speranza, insistendo sull’importanza del dare alle giovani generazioni di elettori bosniaci “la sensazione che il loro futuro risieda nel proprio paese”. Per fare questo, è fondamentale colmare i divari tra i diversi gruppi etnici, così che ogni cittadino della Bosnia-Erzegovina, continua Schennach, si identifichi come tale “senza la necessità di ulteriori specificazioni”.
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