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REP. CECA: Babiš si candida alle presidenziali. Tra i due litiganti il terzo gode?

A meno di due mesi dalle elezioni presidenziali in Rep. Ceca, con la candidatura dell’ex premier Andrej Babiš si inasprisce lo scontro…

Un candidato ingombrante

Chi per le imminenti presidenziali in Repubblica Ceca, indette per il 13 e 14 gennaio 2023, col più che probabile ballottaggio il 27 e 28 gennaio, si aspettava e confidava in una campagna elettorale civile e decorosa è rimasto purtroppo deluso. Con l’annuncio pubblico del 30 ottobre, l’ex premier Andrej Babiš, tycoon nel campo agroalimentare e mediatico, nonché padre padrone del partito ANO attualmente all’opposizione, entra ufficialmente nell’agone elettorale candidandosi a succedere al tanto discusso e criticato presidente Miloš Zeman che, assolti due mandati consecutivi, lascerà definitivamente la presidenza l’8 marzo 2023.

Tentennamenti tattici e tanta voglia di immunità

Come già detto anche su queste pagine, Babiš ha temporeggiato tenendo analisti e concorrenti sulle spine. La spiegazione più in voga si dipana su due piani: il primo declina un Babiš poco propenso a scontrarsi col concorrente attualmente più quotato, lex generale Petr Pavel, mentre il secondo lo vedeva dubbioso sull’opportunità di rivestire un ruolo, quello presidenziale, che, per quanto prestigioso e soddisfacente, pecca assai in termini di poteri politici. La Cechia, infatti, pur avendo optato nel 2012 per l’elezione diretta del presidente, rimane una repubblica ben ancorata al parlamentarismo dove il capo di Stato è sostanzialmente relegato alla carica di massimo cerimoniere con poteri di veto, a livello legislativo, anche più deboli di quelli cui siamo abituati in Italia.

Ma forse, invece, era tutta una tattica studiata a tavolino volta a, per dirla con una canzonetta, “vedere l’effetto che fa”. Ovvero per studiare le mosse degli avversari e le reazioni dell’opinione pubblica all’ipotesi di un Babiš che rinuncia al supremo scranno per ripromettere ai suoi elettori di tornare come premier. Poltrona, questa, forse meno prestigiosa ma di gran lunga più utile per attuare le politiche espansionistiche e assistenzialistiche che, nel governo precedente, gli sono valse quel robusto supporto popolare di cui gode tutt’oggi. E i suoi elettori potrebbero preferire vederlo tornare alla premiership.

Ma probabilmente a decidere la candidatura, come voglion le malelingue, che riportiamo solo in ossequio al celeberrimo motto andreottiano, è stata banalmente l’appetitosa immunità di cui il presidente gode, in virtù dell’articolo 65 della Costituzione ceca, da qualsiasi reato di natura non costituzionale. Immunità che potrebbe, guarda te il caso, tornar comoda in caso di condanna nel processo sul caso del Nido di Cicogna nel quale l’ex premier è accusato di aver frodato due milioni di euro dai fondi europei per una sovvenzione cui non aveva diritto. Eventuali reminiscenze italiche sono tutt’altro che fuori luogo.

Senza esclusione di colpi

Quello che ci aspetta, dunque, sarà l’ennesimo spietato scontro elettorale nel quale Babiš, affiancato dai suoi abili esperti di marketing, cavalcherà cinicamente il discontento popolare per la non facile situazione in cui versa il paese per, da una parte, gettare discreto sull’ex generale, suo contendente principale, additandolo come il candidato appoggiato da quel governo a sua detta colpevole dei rincari e, dall’altra, per presentare banalmente se stesso come la panacea a tutti i mali promettendo il ritorno ai fasti di uno Stato più generoso e di manica larga. Per non parlare dei profughi ucraini, in totale circa 400.000 persone su una popolazione ceca di 10,5 milioni di abitanti, che offrono facilmente il fianco alla più classica delle armi elettori dei populisti di tutto il mondo: “per loro i soldi ci sono, per i nostri bambini no”, con effetto strappalacrime garantito. Babiš è attento a non scivolare verso posizioni più estreme, lasciando ben volentieri il “lavoro sporco” al partito xenofobo di Tomio Okamura e alla galassia della destra radicale. A livello ufficiale, quindi, appoggia gli aiuti all’Ucraina e ai profughi, ma ai suoi elettori parla con l’ambiguità politica di chi li rimanderebbe volentieri a casa e non si farebbe problemi a trattare il gas con Putin.

Sotto il fuoco amico

Parlando di guerra ed ex generali non si può non parlare del fuoco amico scaricato contro Petr Pavel, reo, secondo i suoi detrattori, di aver iniziato, nel 1983, la sua carriera militare ancora sotto le insegne dell’Esercito popolare cecoslovacco, con tanto di adesione al Partito comunista cecoslovacco, dove fu accolto due anni dopo. Caduto il regime, Pavel prosegue la sua carriera nell’intelligence militare partecipando nel 1993 alla missione UNPROFOR nell’ex Jugoslavia, dove si distingue per aver salvato 55 soldati francesi rimasti isolati tra il fuoco serbo e quello croato. Nel 2003 è in Iraq e nel 2012 diventa Capo di Stato Maggiore della difesa della Repubblica Ceca. Ma alle cronache internazionali assurge due anni dopo quando viene nominato Presidente del Comitato Militare della NATO per il mandato 2015-2018, la seconda carica più importante dell’Alleanza Atlantica. Ed è questo, in buona sostanza, il jolly con cui l’ex generale intende sia dimostrare la propria attitudine a rappresentare degnamente il paese sullo scacchiere internazionale, che rispedire al mittente le accuse di chi non intende perdonargli il suo peccato originale (peraltro dall’interessato mai negato, a differenza del suo avversario Babiš che, nonostante i documenti d’archivio e le conferme degli storici, continua a negare di esser stato un agente dell’StB, la polizia politica del regime comunista).

Poco vale, agli occhi dei pasdaran dell’interpretazione manichea del passato di Pavel, l’evidente sproporzione tra i 6 anni di servizio sotto il regime (Pavel, a sua volta figlio di un soldato di professione, non aveva neanche 22 anni quando entrò nell’esercito) a fronte dei successivi 28 anni trascorsi a servire strutture militari afferenti a paesi e organizzazioni democratici. Sui social lo scontro interno al fronte liberale si fa allora feroce tra chi dubita che i capi di Stato Maggiore dei paesi NATO avrebbero votato una figura compromessa col precedente regime e chi, invece, facendone soprattutto una questione di principio, a 33 anni dalla Rivoluzione di Velluto non intende tollerare in alcun modo ai vertici dello Stato un ex membro del Partito comunista. Applicando così, però, una mentalità da purga politica non dissimile da quello stesso regime totalitario da cui tanto ci si vuole distanziare. Così tanto da finire per somigliargli un po’. Un paradosso, questo, ancora riscontrabile in certi aspetti della mentalità dogmatica dei figli di quell’epoca, liberali e non. Ma non divaghiamo.

Ed ecco, allora, venire a galla la candidatura di Danuše Nerudová, economista ed ex rettrice dell’Università Mendel di Brno. Personaggio gradevole e moderato, privo, però, di qualsiasi esperienza politica, sconosciuto al grande pubblico, e il cui maggior credito sembra quello d’aver avuto solo 10 anni al tempo della Rivoluzione di Velluto e di ricordare vagamente Zuzana Čaputová, la popolare presidente della Slovacchia di cui si vorrebbe replicare il primato di primo presidente donna. Magari anche sull’onda della recente elezione di Nataša Pirc Musar, prima presidente donna slovena. Che tra i due litiganti in seno al campo democratico a godere sia proverbialmente il terzo?

Ma proviamo a dare i numeri. Secondo gli ultimi sondaggi, al primo turno Petr Pavel rimane il favorito con  il 24,4% delle preferenze, incalzato, però, dall’ex premier che porterebbe a casa un 21,6% mentre la Nerudová incasserebbe un 14,9%. Tra gli altri candidati si segnala al pubblico italiano Josef Středula (dato al 6,2%), presidente della ČMKOS, la Confederazione ceco-morava delle sigle sindacali, intervistato da EstOvest del TGR Rai FVG.

Un paese politicamente stanco

Non è mai facile fare previsioni, soprattutto in tempi di profonda frammentazione politica e sociale e di forte insicurezza come questi, ma qualche riflessione è possibile azzardarla. In generale, dal “punteggio” finale nel duello Babiš-Pavel possiamo attenderci un indicatore di quanto, sullo sfondo delle grandi incertezze e paure che il paese sta vivendo a causa della guerra e della crisi energetica, i cechi si fidino delle strutture euroatlantiche, ivi rappresentate dall’ex generale (anche e soprattutto in virtù del suo passato ai vertici della NATO), o, al contrario, quanto preferiscano rifugiarsi nuovamente, come avvenuto nelle politiche del 2017 sull’onda della paura della crisi migratoria, sotto l’ala (apparentemente) protettrice del populismo, ivi incarnata dall’ex premier. Lo score che, invece, si registrerà tra Petr Pavel e Danuše Nerudová, sarà un buon indice della misura in cui la società ceca abbia, o non abbia, elaborato e digerito il proprio passato totalitario e sia, quindi, pronta a votare finalmente in modo davvero libero e avulso dal condizionamento di un passato che non passa e che si vorrebbe fugare appoggiando candidati i cui  maggiori punti di forza sono il gender e un dato anagrafico (1979) a prova di scomode implicazioni socialrealistiche.

Vada come vada, una cosa è certa: a 20 anni esatti dall’ultima presidenza di Václav Havel, e dopo i quattro mandati catastrofici (l’ultimo dei quali addirittura ben oltre il grottesco) di Václav Klaus e Miloš Zeman, caratterizzati da uno strisciante e deleterio antieuropeismo e uno sfacciato e maldestro filoputinismo, veder salire al Castello di Praga, sede del capo di Stato, una figura controversa, geopoliticamente ambigua e altamente divisiva come quella di Andrej Babiš significherebbe per la Repubblica Ceca prolungare l’agonia schizofrenica della spaccatura tra una più che soddisfacente dimensione sostanziale, rappresentata da un paese pluralista, liberal-democratico e tutto sommato funzionante, che dal 1989 ad oggi ha fatto passi da gigante sulla strada verso la modernità, e una più che deludente dimensione istituzionale, raffigurata da una classe politica fragile, insicura e ondivaga incapace, assolto il compito di entrare nell’UE e nella NATO, di ispirare e guidare il paese verso nuovi obiettivi futuri di ampio respiro.

Ai posteri, come sempre, l’ardua sentenza.

Foto: René Volfík | Fonte: Collage di iROZHLAS
Da sinistra a destra i tre candidati più quotati: Petr Pavel, Andrej Babiš, Danuše Nerudová

Chi è Andreas Pieralli

Pubblicista e traduttore freelance bilingue italo-ceco. Laureato in Scienze Politiche a Firenze, vive e lavora a Praga. Si interessa e scrive di politica, storia e società dell’Europa centrale. Coordina e dirige il progetto per un Giardino dei Giusti a Praga.

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