L’11 ottobre scorso Israele e Libano sono giunti ad un accordo sui confini marittimi che separano le acque territoriali e le zone economiche esclusive (ZEE) dei due paesi. L’accordo è stato definito da più parti come “storico”: non solo perché è il primo dalla nascita dei due paesi, che non riconoscono il confine terrestre che li separa e che sono ancora tutt’oggi formalmente in guerra, ma anche perché regola e consente lo sfruttamento dei bacini di gas naturale di Karish e Qana, finora contesi fra i due vicini ed ancora praticamente inviolati. Un cambiamento che potrebbe influire sugli equilibri della scena energetica dell’intero bacino del Mediterraneo.
I dettagli dell’accordo
La necessità di un accordo sui confini marittimi fra Israele e Libano iniziò a palesarsi alla fine degli anni 2000, quando nella ZEE israeliana furono scoperte le due maggiori riserve di gas della costa levantina, Tamar e Leviathan, che sono stimati contenere circa 1000 miliardi di metri cubi di gas naturale. Le trattative, cominciate nel 2013 ma risoltesi con un nulla di fatto, ripresero solo nel 2020, quando il paese dei Cedri reclamò il bacino di Karish come facente parte della propria ZEE. Nato grazie a quasi due anni di mediazione statunitense, il recente accordo stabilisce definitivamente anche i diritti di sfruttamento dei due bacini: mentre Karish sarà parte della ZEE israeliana, quello di Qana, non ancora esplorato, sarà sfruttato dal Libano, ma Israele avrà comunque diritto ad una percentuale sulle future entrate.
Le conseguenze per Israele e Libano
La possibilità di sfruttare un bacino di gas che è stimato poter fruttare circa 5 miliardi di dollari l’anno potrebbe rappresentare una pallida luce in fondo al tunnel per le finanze libanesi. Il paese, già vessato da un’endemica crisi politica e dai traumi mai risolti di una guerra civile conclusasi più di trent’anni fa, dal 2019 è precipitato in una profonda crisi economica. In seguito allo scoppio della bolla finanziaria che reggeva l’economia del paese, infatti, il Libano ha visto una crescita vertiginosa dell’inflazione, accompagnata da una crisi energetica ed alimentare. Benché sicuramente non sufficienti ad appianare un debito pubblico di circa 90 miliardi di dollari e messe in pericolo dai meccanismi di un sistema politico e sociale profondamente corrotto e disfunzionale, le entrate provenienti dal bacino di Qana potrebbero tuttavia contribuire a migliorare la tragica situazione energetica sperimentata quotidianamente dalla popolazione ed a stabilizzare politicamente il paese.
Per Israele, invece, l’accordo rappresenta l’ennesimo tassello che va a consolidare il suo status di potenza del gas del Mediterraneo. Il governo Lapid ha saputo trarre un triplice vantaggio da una situazione che si stava rivelando decisamente spinosa, in particolare dopo il 2 luglio scorso, quando la marina israeliana ha abbattuto tre droni non armati di Hezbollah diretti verso il bacino di Karish. In primis, Israele può trarre beneficio da un Libano più stabile e dunque meno prono ad un’influenza da parte dell’Iran, avversario dello stato ebraico; poi, l’accordo su dei confini marittimi determinati ha tolto al Partito di Dio ogni possibilità di rivendicazione delle acque contese e di azioni militari ostili, pena la perdita del bacino di Qana; in ultimo, la securitizzazione dell’area permetterà a Israele di iniziare fin da subito a sfruttare pienamente l’area, priva ormai di rischi geopolitici. Proprio i 50 miliardi di metri cubi che sono stimati essere celati sotto le acque di Karish, inoltre – sebbene non paragonabili agli enormi depositi di Tamar e Leviathan – potrebbero generare quel surplus energetico destinato all’esportazione verso l’Europa, rivelandosi così un fattore chiave nella partita per il gas del Mare Nostrum.
Cui prodest?
La domanda di gas dei paesi del Vecchio Continente, a secco di gas russo, infatti, ha incentivato le collaborazioni in tema energetico dell’Unione Europea con i paesi della sponda sud del Mediterraneo: non ultimo l’accordo dello scorso giugno fra Israele, Egitto e UE, che prevede il trasporto del gas israeliano in Egitto via pipeline, la sua conversione in LNG (gas naturale liquido) e infine il trasporto via nave fino ai porti greci di Creta e del Pireo.
Ma il viaggio via container non è l’unico modo con cui le risorse israeliane potrebbero attraversare il Mediterraneo. Come dichiarato dal suo presidente Erdoğan, infatti, la Turchia (già forte della presenza sul proprio territorio di gas azero – via TAP – e di gas russo – via TurkStream) programma di diventare nel breve termine un nuovo hub dell’energia. Dal 2016 Ankara ha intavolato una serie di incontri diplomatici con Tel Aviv per discutere di materia energetica, nello specifico del progetto di un nuovo gasdotto che porterebbe il metano israeliano in Turchia. E, sempre in tale ottica, la Repubblica turca tiene puntati gli occhi anche sul Libano. Ankara, infatti, potrebbe beneficiare di una stabilizzazione energetica e politica del paesi dei Cedri, non solo in quanto rappresenterebbe una possibile fonte di idrocarburi (sempre che il bacino di Qana risulti abbastanza ricco), ma anche perché ciò significherebbe una ridotta dipendenza dall’Iran, principale concorrente della Turchia per la supremazia nella regione.
L’accordo fra Israele e Libano, infine, potrebbe sbloccare la trattativa per la definizione dei confini marittimi fra lo stesso paese dei Cedri e Cipro, bloccata da anni: la scorsa settimana il ministro degli esteri cipriota ha manifestato il proprio interesse nel riaprire i dialoghi con le autorità libanesi, cavalcando l’onda di cooperazione reciproca creatasi dopo il recente accordo.
Nonostante le ipotesi, le conseguenze sul piano internazionale dell’accordo tra Israele e Libano sono ancora tutte da vedere. Tuttavia, ancora una volta, la spietata corsa agli idrocarburi si rivela paradossalmente il motore più efficacie per la cooperazione fra i vari attori che partecipano al gas game del Mediterraneo.