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STORIA: Turchi e tatari di Dobrugia. “Eravate i migliori ma ve ne siete andati”

La Dobrugia, in Romania, era casa di una forte comunità turca, ridottasi nell’ultimo secolo a causa di migrazioni volontarie o organizzate.

La storia dei turchi della Dobrugia è millenaria: già negli ultimi decenni del 1200, forti correnti migratorie dall’Anatolia si sono arrestate nella zona, rafforzatesi poi quando la provincia è passata sotto l’amministrazione dell’Impero ottomano. La popolazione locale di origine turca è aumentata con l’arrivo dei Tatari che, seppure presenti in Dobrugia già dal Tredicesimo secolo, si sono spostati principalmente dopo il 1783, a seguito dell’annessione della Crimea da parte della Russia.

Tutt’altro che statica, la popolazione di origine turca ha più volte attraversato i confini con l’Impero ottomano: nel 1900 la quota di turchi in Dobrogea era ormai drasticamente scesa ma, conseguenza delle guerre balcaniche e dunque dell’annessione della Dobrugia meridionale, la Romania si è ritrovata dentro i suoi confini più di 150.000 turchi e 22.000 tatari. Le guerre balcaniche hanno portato con sé i famigerati esodi di popolazione: nel 1936, la Convenzione sui turchi e i tatari della Dobrogea ha dato il via a ondate migratorie organizzate che, accanto all’immigrazione illegale, hanno ridotto la popolazione musulmana in Dobrugia a circa 35.000 individui (tutte le cifre sono ovviamente approssimative e spesso strumentalizzate).

Le cause

La partenza di così tanti turchi dal territorio romeno non è solo frutto della coercizione: la nuova Repubblica turca di Mustafa Kemal Atatürk ha infatti avuto un forte ascendente sui turchi sparsi nei Balcani. Il regime di Ankara si era impegnato a promuovere il ritorno dei suoi cittadini fuori confine: l’impero multietnico e multireligioso sostituito da una Turchia secolarizzata, Kemal ha da subito fatto leva sull’etnia per fondare la sua nuova nazione, scarsa in popolazione dopo le guerre.

La Romania era invece più recalcitrante: se da un lato l’emigrazione di turchi permetteva l’istallazione di coloni romeni, dall’altro la minoranza bulgara sarebbe diventata relativamente più importante. I turchi e i tatari, pacifici e meglio integrati, non avevano mai espresso rivendicazioni territoriali, mentre i bulgari si erano aspramente opposti all’annessione.

Le ragioni delle ondate migratorie sono dunque diventate terreno di disputa tra Romania e Turchia, nonostante i buoni rapporti tra i due paesi nel periodo interbellico: Ankara accusava la Romania di discriminazione e soprusi sui turchi, spinti quindi a partire, mentre Bucarest puntava il dito contro la propaganda turca, sebbene le stesse autorità romene avessero chiuso un occhio di fronte alle ondate migratorie illegali che permettevano a nuovi coloni romeni di istallarsi nella zona.

L’opinione pubblica

La stampa romena ha più volte espresso dolore di fronte all’esodo. Țara lui Mircea, giornale nazionalista, riportava: “Di tutte le minoranze che la Dobrogea ha ospitato e tuttora ospita, i turchi erano i più gentili, superando spesso in correttezza ed onestà i padroni di questa terra”. Allo stesso modo, i quotidiani turchi e tatari sottolineavano i buoni rapporti avuti con le autorità romene. Elogi con un risvolto pratico e destinati anche a terzi: i nemici in comune, ovvero i bulgari. Le autorità romene hanno forzato i turchi a vendere i propri possedimenti allo Stato che li avrebbe poi affidati a coloni rumeni (misura necessaria di fronte ai prezzi alti che i bulgari offrivano per acquistarli).

Quelli che sono restati

A primo impatto sembra illogico che la quota di turchi in Romania sia tornata a crescere dopo la guerra e l’avvento del comunismo (dai circa 15.000 turchi nel censimento del 1956 ai 30.000 nel 1992). La spiegazione è in realtà molto pratica: l’identità turca ha acquisito connotati sociali più che etnici. I rom, complice la religione comune, hanno iniziato a definirsi “turchi”. Una pratica tuttora diffusa, simbolo del raggiungimento di un certo status sociale: i rom “di successo”, quelli con un buon lavoro, si autodefiniscono turchi.

Durante gli anni del comunismo la popolazione turca si è ben adattata all’ideologia di Stato: in generale, i sentimenti di appartenenza etnica hanno perso importanza di fronte ad altre categorie (prima su tutte, la classe proletaria). Se nei primi anni del regime la vita isolata nei villaggi garantiva la preservazione delle tradizioni turche, l’industrializzazione e la conseguente migrazione verso i centri urbani hanno spinto la minoranza ad abbandonare la propria lingua, ormai usata solo in famiglia. L’ateismo di Stato ha portato la comunità a praticare meno l’islam in pubblico, seppure non si riscontrano nelle testimonianze di oggi persecuzioni nei confronti dei musulmani, a differenza di quanto accaduto in Bulgaria, dove il regime di Todor Živkov si è macchiato del crimine di pulizia etnica. Al contrario, la comunità turca ricorda perlopiù in maniera positiva il periodo comunista: la nostalgia del vecchio regime si riscontra spesso nei racconti.

Oggi la comunità turca abita principalmente nel distretto di Costanza ed è raccolta attorno ad un partito etnico, l’Unione Democratica Turca di Romania (in quanto minoranza ufficialmente riconosciuta, i turchi hanno diritto ad un rappresentante nella Camera dei deputati). Complice l’ingresso in Unione Europea, i turchi hanno iniziato ad emigrare verso le stesse destinazioni europee scelte dai compatrioti. Ennesima storia dei Balcani che rischia di scomparire.

Foto: fusion-of-horizons, Flickr

Chi è Gianmarco Bucci

Nato nel 1997 a Pescara, vive a Firenze. Al momento svolge un dottorato in Scienze Politiche e Sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa sulle coalizioni rosso-brune in Europa centro-orientale. Scrive su East Journal dal dicembre 2021.

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