Chleb i Sol (Pane e Sale) di Damian Kocur ha ottenuto il premio della giuria nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno.
Con il suo film di debutto, Damian Kocur ha conquistato il pubblico di Venezia con un’anteprima molto partecipata ed un Q&A dall’elevata interattività con il pubblico, fatto inusuale per la maggior parte delle proiezioni della sezione Orizzonti con questo format in Sala Darsena. La giuria, presieduta da Isabel Coixet ha saputo trasmettere l’apprezzamento di Pane e Sale assegnando il premio speciale della giuria nella sezione Orizzonti. Abbiamo incontrato Damian Kocur durante la Mostra per un’intervista esclusiva.
Il significato del titolo riporta ad una tradizione diffusa nell’Est, ma nel film emerge che ha un doppio connotato. Era un’intenzione fin dall’inizio?
«L’idea originale per il titolo era collegata ad un concetto del quale la nostra società polacca è fiera, ovvero quello di dare il benvenuto agli ospiti con pane e sale; si tratta di un simbolo. Durante le riprese parlavo con il mio amico che ha interpretato il ruolo dell’immigrato e mi ha detto che in arabo esiste questo detto ma con un significato diverso. L’ho trovato interessante».
Colpisce anche la scelta del formato e delle inquadrature distanti, qualora l’intenzione?
«È un 4:3. La maggior parte delle scene sono singole inquadrature e volevamo inquadrare quanto più elementi possibile, abbiamo usato il sensore intero della telecamera ARRI Alexa. Al contempo abbiamo usato la telecamera come una sorta di osservatore esterno, così come lo è lo spettatore nel cinema. A volte dovevamo montare un primo piano per mostrare la reazione di un personaggio ma la maggior parte delle scene erano distanti. Un’inquadratura più ampia in qualche modo è più facile da gestire. Cercavamo di evitare di usare raccordi, di stabilire un linguaggio cinematografico distinto, che non sia troppo facile per lo spettatore».
Inoltre, anche il suono sembra avere una sua importanza, anche per via della contrapposizione di generi musicali come quella classica suonata dal protagonista ed il rap di alcuni abitanti del villaggio.
«Penso che il suono che proviene dall’esterno dell’inquadratura abbia lo stesso impatto sullo spettatore. Più o meno il 50% del film è stato concepito durante le riprese, però per esempio le scene di freestyling erano vere performance che abbiamo ripreso e poi contrapposto alle altre musiche in montaggio. Visto che abbiamo girato il film con un metodo documentaristico, a volte prendevamo direzioni che ci sembravano più interessanti del testo».
La scena madre del film è mostrata attraverso inquadrature di telecamere a circuito chiuso, e il momento culmine sembra sovvertire i canoni di vittima e carnefice per quanto riguarda il tema del razzismo.
«Il film era basato su eventi reali che si sono svolti in un kebab in un paesino polacco, questa è stata l’ispirazione. Gli immigrati sono stati portati al limite, la spirale di violenza aumentava sempre di più. Per quanto riguarda la scena delle telecamere a circuito chiuso, mi sono reso conto di come atti violenti come questo sono qualcosa che si può trovare su YouTube, per cui ho optato per questa soluzione, che tra l’altro è una telecamera oggettiva che osserva dall’esterno, com’era l’impostazione generale».
C’era comunque una sceneggiatura?
«Sì, avevo scritto una sceneggiatura molto precisa, in tre atti, molto strutturata, solo che ci sono stati cambiamenti durante il processo di produzione».
Hai utilizzato attori non professionisti, ed hai già accennato all’input dato da uno di loro per un ulteriore significato del titolo. Quanto è stato importante il coinvolgimento degli attori nella storia?
«Molto. Alcune scene erano interamente idee loro, ed io osservavo e basta. C’erano battute che dovevano dire ma avevano comunque libertà. Ero disponibile a qualsiasi cosa che succedesse. Abitavamo insieme in un appartamento durante i periodo delle riprese, mangiavamo colazione insieme e interagivamo molto. Uno degli attori un giorno si è aperto riguardo al suo padre alcolizzato per il quale si colpevolizzava ed è scoppiato in lacrime. Gli ho chiesto se poteva ripetere la storia e quella è diventata una scena».
In che misura si è trasmessa la personalità degli attori nei loro personaggi?
«Timek viene da un piccolo paesino, ci conosciamo da quando avevamo sei anni. I personaggi sono stati in qualche modo modellati attorno agli attori, dovevano esserlo. Abbiamo sfruttato le loro capacità, che erano semplicemente elementi reali che sono entrati a far parte del film. Progetto di usare attori non-professionisti in futuro, l’ho fatto nei sette cortometraggi che ho già fatto. Mi piace lavorare con la gente, combinare protagonisti “documentaristici” con storie di finzione, fa parte anche del dottorato che sto scrivendo ora alla Scuola di cinema di Lodz».
Con Pane e Sale, Damian Kocur – ancora studente alla prestigiosa scuola di cinema di Lodz – ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria, lanciandolo verso una carriera che sicuramente riserverà altre sorprese.