REP. CECA: L’estrema destra (e non solo) protesta contro il carovita

Una manifestazione non trasversale

Sabato scorso piazza Venceslao, la principale di Praga, si è riempita di bandiere ceche sventolate da circa 70.000 manifestanti riunitisi per protestare contro il governo, reo di non rispondere adeguatamente all’incombente crisi energetica. All’insegna dello slogan, già visto altrove, La Repubblica Ceca al primo posto, i partecipanti hanno chiesto l’uscita del paese dalla NATO e dall’UE (e fin qui nulla di nuovo), ma anche dall’OMS (colpevole di aver cercato di salvare vite umane durante la pandemia) e, già che c’erano, pure dall’ONU (sic)! Tutto questo invocando la neutralità totale della Cechia per tornare a comprare, come se nulla fosse, il gas a buon mercato da Putin. Taluni media e commentatori italiani si sono affrettati a dedurne anzitempo che il popolo ceco avrebbe cambiato rotta riorientandosi verso Mosca. In realtà le cose sono più complesse di quanto un certo wishful thinking vorrebbe far credere.

La manifestazione è stata convocata da forze di estrema destra, il partito xenofobo SPD del ceco-nipponico Tomio Okamura e il partito extraparlamentare nazionalista e radicale Trikolora, e dai comunisti (non riformati, occorre sempre ricordarlo) del KSČM, anch’essi rimasti fuori dal parlamento nelle elezioni politiche del 2021. Un quadro più chiaro ce lo possiamo fare guardando meglio all’organizzatore principale, tale Ladislav Vrábel, soggetto molto attivo sulla scena della disinformazione che collabora con la televisione dell’esercito russo Zvezda e con uno dei propagandisti più influenti delle televisione di stato russa Rossija TV Žarko Jovanovič. Non stupisce, allora, che il premier ceco Petr Fiala (di concerto con gli ucraini, ma questo stupisce ancor meno) abbia affermato che la manifestazione è stata organizzata da forze vicine a Mosca. Davvero difficile, allora, definirla una manifestazione “trasversale”, come ha fatto, per esempio, Insider. Tra i tanti assenti, infatti, mancava anche il maggiore partito di opposizione ANO dell’ex premier e noto tycoon ceco Andrej Babiš.

Va comunque notato che per le forze della destra radicale ceca non è affatto comune totalizzare numeri tutto sommato importanti. I cechi sono molto meno avvezzi di altri popoli (pensiamo a noi italiani o ai francesi) a scendere in piazza. Il campo opposto, quello dei liberali, è arrivato a incassare un 300.000 persone nel 2019 nelle proteste contro il conflitto di interessi di Babiš. Ciò significa che, molto probabilmente, in quei 70.000 c’erano diverse migliaia di “infiltrati” moderati adirati contro il governo ma non per questo necessariamente contrari agli aiuti all’Ucraina o addirittura filoputiniani.

I cechi, infatti, hanno inviato 4 mld. di corone (ca. 160 mil. €) in aiuti all’Ucraina di cui la metà nelle sole prime due settimane dall’invasione. Una somma pari a quella della sette volte più grande Francia. Questo a fronte di un numero di rifugiati accolti nel paese di quasi 400.000 (terza destinazione europea) con il primato assoluto nell’UE se rapportati alla popolazione (3646 per 100.000 abitanti, più della Polonia con 3157).

Un governo apparentemente stabile

La coalizione attualmente al governo, guidata dall’ex professore Petr Fiala e in carica da quasi un anno, ha mostrato finora una coesione interna invidiabile, se consideriamo che è formata da 5 partiti che vanno dai conservatori ai liberali progressisti passando per i cristiano-democratici. Totalmente assenti, almeno dall’esterno, le bagarre intestine e il fuoco amico così tipici della politica nostrana. Gli scandali, per fare un esempio, che hanno colpito lo STAN, il partito dei sindaci e degli indipendenti, non hanno intaccato la tenuta dell’esecutivo e sono stati presto risolti. Molto più deficitario, invece, è l’operato del governo sul fronte della comunicazione. Forse è il prezzo da pagare per mantenere un equilibrio non facile tra i 5, ma quello che si percepisce esternamente è un silenzio frammentato qua e là da annunci non sempre coerenti e chiari. E questo sta innervosendo larghe fasce della popolazione legittimamente preoccupate per la crisi energetica.

Un mandante ingombrante

Preoccupate ma, anche, vigorosamente aizzate da Babiš che con il suo potente apparato mediatico (in barba alla legge sul conflitto di interessi possiede e controlla i due principali quotidiani del paese e molte altre testate) sta versando benzina, o forse sarebbe meglio dire gas, sul fuoco sobillando la popolazione contro il governo cui ascrive senza remore la cosiddetta “Fialova drahota”, ovvero il carovita di Fiala. Quando l’inflazione ceca, con il 17,5% la quarta più alta dell’UE, ha iniziato a galoppare prima della crisi energetica. Non a caso lo slogan con cui Babiš sta facendo campagna elettorale è Za Babiše bylo líp“, ovvero Quando c’era lui (Babiš) si stava meglio. Una campagna elettorale valevole sia per le comunali di fine settembre che per le presidenziali dell’inizio dell’anno prossimo. Ufficialmente Babiš non ha ancora annunciato la sua candidatura alla presidenza, promettendo di farlo il 28 ottobre (il 2 giugno ceco per intendersi). Secondo gli analisti sarebbe indeciso se farlo dato che i sondaggi lo danno perdente in caso di ballottaggio con l’ex generale in pensione, nonché alto grado NATO Petr Pavel, e molti suoi supporter lo preferirebbero vedere nuovamente al governo dove avrebbe decisamente più potere per attuare quelle politiche assistenzialiste che gli valgono quel 30% stabile di preferenze. E così, intanto, nel dubbio, spara a zero con la potenza di fuoco dei suoi giornali su Fiala e non si fa scrupoli di accusarlo di preferire i profughi ucraini ai cittadini cechi. Anche questa una solfa già sentita. Assente, dunque, dalla manifestazione, Babiš ne è in qualche modo quindi il mandante implicito che ne ha preparato il terreno.

Il governo, come detto, per ora tiene, supportato da una solida maggioranza in parlamento di 108 voti su 200, ma le cose potrebbero cambiare. E l’incognita “ballerina” è l’ODS, il partito stesso del premier nonché colonna portante della coalizione SPOLU (affiancato dallo STAN e dai cristiano-democratici) o, per meglio dire, l’atavico e profondamente radicato euroscetticismo di una sua frangia tutt’altro che marginale. Alimentata e nutrita da due presidenze di Václav Klaus (che firmò l’adesione all’UE “turandosi il naso”, come ebbe a dire), per un totale di 10 anni di demonizzazione militante di qualsiasi cosa assomigliasse anche vagamente a una bandiera blu con dodici stelle gialle. Questa corrente contraria a Bruxelles è anche molto scettica verso Washington e secondo alcuni analisti potrebbe tentare il colpo di mano per detronizzare Fiala azzardando un rimpasto di governo con Babiš.

Un paese socialmente fragile dall’orientamento ondivago

Summa summārum, per usare un’espressione cara ai cechi, ovvero tirando le somme, la Repubblica Ceca paga lo scotto di un grosso rischio sociale rappresentato da quella non trascurabile fascia di popolazione che, a ragione o a torto, sente di non aver beneficiato della transizione dal socialismo al liberalismo (talvolta chiamati anche i “perdenti della globalizzazione”) e ritiene tradita la promessa fatta 30 anni fa secondo cui, con la fine del regime comunista filosovietico e il relativo allineamento alle strutture euroatlantiche, sarebbero arrivate le libertà e il benessere economico per tutti. Di qui una frustrazione e una rabbia carsiche, finora sopite da tassi di disoccupazione bassi (attualmente il più basso in Europa). In realtà la promessa era innanzitutto il ripristino delle libertà e dei diritti politici, cosa effettivamente avvenuta. La prosperità, secondo le ricette del neoliberismo subentrato alla pianificazione centralizzata, fu demandata all’iniziativa e agli sforzi personali.

Parliamo, in sintesi, di quel 10% circa (che arriva al 25% includendo familiari a carico) di persone che vivono col salario minimo (circa mezzo milione) di 600 € lordi (peraltro aumentato da Bab) e/o con la spada di Damocle di uno o più pignoramenti sulla testa. Non stupisce allora apprendere che il summenzionato Ladislav Vrábel abbia subito ben 27 pignoramenti.

Paese più industrializzato d’Europa (38% del PIL e 36% dell’occupazione), nonostante l’elevata mobilità occupazionale la Repubblica Ceca deve fare i conti con un quarto circa dei suoi abitanti in condizioni economiche fragili che potrebbero non reggere l’urto del carovita e delle bollette. Soprattutto se a guidare il governo c’è un partito, quello dei civici-democratici, da sempre thatcherianamente allergico a sussidi e aiuto ai più deboli (secondo il motto homo faber fortunae suae e amen se le condizioni di partenza non sono le stesse per tutti). Il governo in carica ha approntato degli aiuti contro il rincaro delle bollette, ma le misure sono poco chiare e comunicate poco e male. Il rischio, allora, per il governo è di inciampare nel rispetto intransigente, anche al cospetto di conti pubblici più che in ordine, del rigore fiscale, aggravando così le sofferenze del paese.

Foto: Deník/Radek Cihla

Chi è Andreas Pieralli

Pubblicista e traduttore freelance bilingue italo-ceco. Laureato in Scienze Politiche a Firenze, vive e lavora a Praga. Si interessa e scrive di politica, storia e società dell’Europa centrale. Coordina e dirige il progetto per un Giardino dei Giusti a Praga.

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