Dopo il successo internazionale di Dio è donna e si chiama Petrunya, la regista macedone Teona Strugar Mitevska presenta alla Mostra del Cinema di Venezia il suo nuovo lungometraggio, L’uomo più felice del mondo, di produzione bosniaca.
Forse il cineasta macedone più noto al mondo oggi, il successo internazionale di Teona Strugar Mitevska è legato al suo film Dio è donna e si chiama Petrunya, premiato al festival di Berlino nel 2019, film provocante che colpisce già dal titolo e che ha aperto uno spiraglio sulle questioni di genere e di parità di diritti nei Balcani. Con L’uomo più felice del mondo, il soggetto diventano le guerre jugoslave e i traumi che ancora oggi provoca, raccontati attraverso l’incontro casuale tra una donna ed un uomo, legati in modo tragico dagli eventi dell’assedio di Sarajevo del 1993. La storia è liberamente ispirata ad un’esperienza personale della sceneggiatrice Elma Tataragic.
Sia Petrunya che L’uomo più felice del mondo sono ambientati in spazi chiusi. Quale effetto si provava a creare, si tratta di una scelta continuativa di stile?
«Nel cinema cerchiamo di ricreare il fulcro di una situazione, di certe emozioni, e collocando una storia in uno spazio unico o fissando dei limiti di tempo e di spazio si crea una sensazione di premura, che aiuta a catturare il senso del momento, la realtà, la verità, quindi si tratta di una preferenza personale. Avremmo potuto narrare la storia nel corso di una settimana ma c’è qualcosa nel senso di premura che è necessario per rappresentare la tragedia che queste persone hanno vissuto.»
Colpisce anche la scelta della location: un hotel dell’epoca jugoslava. Qual è l’importanza del luogo per la vicenda?
«Anche in Petrunya, la scelta della location è caduta su un centro archivi di stampo brutalista, e qui invece si trova un edificio nello stile più ornamentale del brutalismo, il che è un’eredità dell’ex-Jugoslavia. C’è il contenuto, la storia ed il contesto: il luogo è il contesto, questa archittettura è il contesto della storia che viene narrata. Inserendola si aggiunge la Storia con la S maiuscola in un modo semplice. Per questo facciamo film, perchè il cinema è una forma d’arte visiva; attraverso un quadro molto può essere narrato, attraverso un luogo si può dire molto sul mondo dal quale vengono queste persone.»
Il titolo si riferisce ad una figura maschile, ma la prospettiva fornita è quella di un personaggio femminile. Si può parlare di una sorta di “female gaze”, un ribaltamento degli stereotipi della prospettiva al maschile?
«Provo sempre a trovare il titolo prima che la sceneggiatura sia completa ma in questo caso, dato che è molto legato alla storia: come può un uomo che ha commesso tali crimini essere felice, trovare pace, continuare a vivere? Chiaramente il titolo viene da questo, ma ho anche una mia personale interpretazione. La focalizzazione del film è un contrappunto al “male gaze”, semplicemente è così. se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo cambiare i costrutti della nostra società. Sono parole forti ma bisogna incominciare da qualche parte, perciò nel titolo è contenuta la questione del genere, del “male gaze inverso”. Colui che è l’uomo più felice del mondo, deve migliorarsi. Chiaramente si tratta di una mia visione personale.»
Ritiene che la sua identità macedone le abbia permesso di essere imparziale nel rappresentare questo dramma?
«Non lo so, per me è stato a lungo un grande dilemma, una montagna da scalare. Ne ho parlato spesso con Elma, la sceneggiatrice, che è sempre stata di supporto e mi ha assicurato che eravamo socie in questo progetto. Può la distanza rendere imparziali? Direi di sì, tenendo conto dei miei film precedenti, dato che non vivo in Macedonia del Nord c’è una distanza tra me e il soggetto dei miei film, ma se prendo in considerazione questo film… quello che hanno vissuto è talmente sofferto, non importa quante ricerche si fanno e con quante persone si parla, non si potrà mai capire com’è vivere sotto assedio, pur provenendo dall’area dell’ex-Jugoslavia. Sono certa che questo film non esisterebbe senza Elma. A dire il vero, ho raccontato la sua storia, e non sono sicura che la distanza aiuti in questo caso.»
Rilevante anche la scelta di inscenare l’odio di riflesso di chi ha subìto crimini di guerra verso coloro che lo hanno commesso, non sempre rappresentato nel cinema per questo tema.
«Ieri, dopo la premiere, un uomo enorme, alto si è avvicinato per chiedere di parlarmi. Ha detto che nel film trovava la propria storia, anche lui è stato colpito da un cecchino e poi portato in Italia. Ha raccontato che mentre stava guardando il film, si chiedeva se fosse in grado di perdonare, di cosa avrebbe fatto se avesse incontrato colui che gli ha sparato, se fosse in grado di superare la barriera che c’era tra lui ed il suo carnefice. Mentre continuava a parlare, più si confidava e più mi rendevo conto che lui probabilmente ha raccontato raramente a qualcuno la propria vicenda, e che vedere questo film è stato in qualche modo liberatorio. Sembra che sia arrivato il tempo nell’ex-Jugoslavia di affrontare il problema e che può incominciare un dialogo, poi si vedrà dove conduce, perchè la soluzione si trova sempre avanti.»
Le ferite non fisiche provocate dalla guerra possono rimarginarsi?
«Elma per molti anni ha cercato di avere figli, e appena ha finito la sceneggiatura è avvenuto il miracolo: è rimasta incinta, ed ora da tre anni è madre. In qualche modo lei ha potuto superare e perdonare, e permettersi di continuare a vivere, prova vivente ne è il figlio. Ne abbiamo parlato spesso ed Elma ha sempre detto: “Ma io l’ho già perdonato. Che senso avrebbe non farlo?”»
A partire proprio da Petrunya, è già da tre anni di seguito che si registra sullo scenario internazionale la rilevanza di una regista balcanica: Jazmila Zbanic nel 2020, Blerta Basholli nel 2021… secondo lei le cose stanno cambiando per quanto riguarda la rappresentazione di voci al femminile?
«Si, certo, da circa 15 anni, ci è permesso di farci sentire. Nei Balcani, quando sei considerata di seconda categoria nella società, sei costretta a combattere ed a metterti costantemente in gioco e ciò ti rende flessibile in modo tale da riuscire a far approvare i tuoi progetti, e questo è il mio caso, ma questo ti permette anche di liberarti da questa prigione nella quale – detto in termini semplicistici – anche gli uomini dei Balcani si incatenano. Questa è la chiave per i tipi di storie che raccontiamo e per la nostra rappresentazione dell’identità balcanica. La verità, non macchiata dalle regole di comportamento dettate dal maschilismo. Ci liberiamo dalla prigionia strutturale e dal patriarcato, e questo non sarebbe possibile se il mondo non fosse disposto ad ascoltarci. C’è una comunicazione tra l’occidente ed i Balcani che ci permette di raccontare le nostre storie. É così che procede l’evoluzione della comprensione.»
Può dirci qualcosa riguardo al prossimo progetto futuro, Mother?
«La sceneggiatura è pronta, è un film che si svolge in sette giorni, una storia immaginata di madre Teresa – lei era di Skopje – prima della fama, riguardo a due suore ed un prete in India negli anni ’40. Non si tratta di un film biografico, segue piuttosto le orme di Il Toro di Aleksandr Sokurov. Riguarda la vera persona che si nasconde dietro al mito, la storia di donne molto ambiziose.»
L’uomo più felice del mondo è stato proiettato a Venezia il 2 Settembre, nella sezione Orizzonti, ed è rintracciabile via streaming sul Biennale Cinema Channel per tutta la durata della Mostra, fino al 10 Settembre. Di Teona Strugar Mitevska, è possibile guardare Dio è donna e si chiama Petrunya su Amazon Prime Video.