La foto di Kharkiv, l’uomo che tiene la mano del figlio ucciso, rielabora e riporta alla mente simboli e narrazioni, da Priamo al figliol prodigo, restituendo l’immagine del più antica del dolore
Fotografie che ritraggono il dolore straziante di un genitore accanto al cadavere del proprio figlio, nella cornice di questa guerra, ne abbiamo (purtroppo) già viste molte. Pochissime, però, hanno avuto l’impatto di quella scattata il 20 luglio a Kharkiv, dove, in seguito a un attacco russo, sono morte tre persone. Tra loro anche un ragazzino tredicenne, atteso dal padre e dalla sorella, rimasta ferita a propria volta, alla fermata dell’autobus vicino alla moschea locale. Ha spaccato i cuori di tutto il mondo l’immagine del padre che veglia per più di ore il corpo del proprio figlio ucciso, tenendogli la mano e baciandolo, inutilmente consolato da varie persone.
In quella foto ci sono effettivamente degli elementi di straordinarietà da sottolineare, alcuni interni all’immagine stessa, altri legati al nostro patrimonio culturale, al di là della tragedia evocata. Va detto, anzitutto, che il cadavere del ragazzo non è visibile. Tutto quel che noi sappiamo è legato alla narrazione che i media ci hanno restituito. Si vede soltanto un telo rosso disteso sul corpo; a stento potremmo identificare il sesso del defunto, se non ingrandissimo l’immagine per osservare da vicino la sua mano stretta in quella del padre. I capelli poggiati sul terreno e la scarpa da ginnastica nera che spunta sotto il telo poco ci aiutano, in questo senso. Pertanto, l’emozione suscitata dalla fotografia è strettamente legata alla narrazione intorno ad essa: non ci sarebbe stata la medesima reazione, se non fosse stata raccontata la storia dell’accaduto, né, certamente, si sarebbe avuta la stessa reazione se sotto a quel telo si fosse trovato un adulto. Da questo punto di vista, la narrazione non soltanto affianca l’immagine, ma la sublima con i riferimenti cui si volge.
“Muore giovane chi è caro agli Dei”, riporta un frammento poetico di Menandro, ripreso poi da Leopardi nei Canti: “Muor giovane colui ch’al cielo è caro”. Attraverso la sacralità, dunque, già gli antichi greci tentavano di dare un senso al dolore più grande, quello per la perdita di un figlio. La giovinezza appariva come l’ornamento più bello del mondo divino, nel tentativo di mitigare il dolore per la dipartita prematura. Questa impostazione si ripete, a ben vedere, nella narrazione che fa da pilastro alla nostra cultura, ovvero il Nuovo testamento, laddove Dio piange il proprio figlio lasciato in sacrificio per gli uomini. Il pianto divino è lo stesso della parabola del Figliol prodigo: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Luca, 15,20). Dio si fa uomo per poter piangere e accogliere il Figlio nel proprio regno. “E con questo pianto il Padre ripercorre nel Figlio tutta la creazione”, ha sostenuto in proposito di recente papa Francesco. “Ci farà bene pensare che il nostro Padre Dio si è fatto uomo per poter piangere e ci farà bene pensare che nostro Padre Dio oggi piange: piange per questa umanità che non finisce di capire la pace che Lui ci offre, la pace dell’amore”.
La morte di un giovane, dunque, ci mette in contatto con il divino; nel dolore, e nel pianto, del padre che la accompagna riconosciamo l’ineluttabilità del meccanismo che ci governa. Il modello attraverso il quale abbiamo imparato a far scattare tale percezione, del resto, è strettamente legato alla coppia padre-figlio da tempi che addirittura precedono il Nuovo testamento. Nel Libro XXIV dell’Iliade Priamo, padre di Ettore, implora Achille di restituirgli il corpo del figlio defunto. Nessuno immaginerebbe mai un gesto simile da parte del re di Troia, il quale, spinto dal dolore per la scomparsa di Ettore, giunge invece fino ad Achille, stringe fra le proprie mani le sue ginocchia, bacia la sua mano omicida.
Secondo il modello che sarà quello del Figliol prodigo, Priamo invita Achille a immaginare il proprio padre che spera ogni giorno “di vedere il figliuolo tornare da Troia”; dal canto suo, Achille riconosce l’enorme coraggio, mosso dal dolore, di Priamo: “Ah misero, quanti mali hai patito nel cuore!/E come hai potuto alle navi dei Danai venire solo,/sotto gli occhi d’un uomo che molti e gagliardi/figliuoli t’ha ucciso? Tu hai cuore di ferro”. Quindi, Achille lega assieme l’elemento divino a quello del pianto, che gli dei filarono assieme per i “mortali infelici”.
La letteratura italiana pullula di straordinari componimenti sul tema. In Giorno per giorno Ungaretti descrive lo strazio di essere sopravvissuto al proprio figlio: “Ora potrò baciare solo in sogno/Le fiduciose mani…/E discorro, lavoro,/Sono appena mutato, temo, fumo…/Come si può ch’io regga a tanta notte?…”; mentre Carducci compone Pianto antico per il figlio Dante, scomparso all’età di soli tre anni: “Sei ne la terra fredda,/Sei ne la terra negra;/Né il sol più ti rallegra/Né ti risveglia amor”. Esulando dal “territorio” letterario, varrà la pena osservare la grande diffusione che ha avuto la lettera pubblicata su Facebook dal papà di Federico Aldrovandi in occasione di quello che sarebbe dovuto essere il trentacinquesimo compleanno di suo figlio: “Caro Federico, da poco è il 17 luglio 2022. Credo che tra un po’ ti avrei chiamato per augurarti semplicemente: Buon compleanno, Federico. Oggi avresti l’età di un uomo adulto, 35 anni”.
La foto di Kharkiv rielabora, con la narrazione che la accompagna, degli elementi culturali che hanno “predisposto” i nostri sentimenti al cospetto dell’immagine di un figlio morto accudito dal padre, ricavandone il dolore e il pianto come rivelazione divina. A livello iconografico, lo scatto in questione potenzia ulteriormente tali elementi sostituendo la figura classica della madre inginocchiata accanto al figlio, basti pensare alle varie tele dedicate alla deposizione di Cristo, direttamente con quella del padre. In questa sintesi di elementi visuali e narrativi scatta quel fenomeno di compassione universale che ha scosso così tanto le nostre coscienze dopo la pubblicazione della fotografia. Del resto, la fratellanza nasce anche dalla condivisione dei dolori che i Celesti ci infliggono, e dalla solidarietà che ne consegue.
LEGGI ANCHE: Il Cristo di Leopoli, un simbolo che tutti abbiamo dentro
—
Photo by Narciso Contreras/Anadolu Agency via Getty Images