Il 2 ottobre in Bosnia Erzegovina si vota per il rinnovo di tutte le assemblee legislative del paese e per la Presidenza tripartita, composta da tre membri, uno per ogni popolo “costituente” (un serbo, un croato ed un bosgnacco).
La “questione croata” resta aperta
Dopo un anno di consultazioni i partiti politici non hanno ancora trovato un accordo sulla riforma elettorale. Le modifiche in discussione riguardano l’elezione dei delegati alla Camera dei Popoli (la camera alta) della Federazione di Bosnia Erzegovina, l’entità a maggioranza croata e bosgnacca che insieme alla Republika Srpska compone il paese. La Corte costituzionale nel 2016 ha richiesto che l’elezione dei delegati alla Camera dei Popoli (17 per ciascun popolo + 7 “Altri”) rispecchi maggiormente la composizione etnica dei dieci cantoni dell’entità.
Tale riforma è chiesta a gran voce dall’HDZ BiH, il principale partito croato, che dal 2016 porta avanti il concetto di “legittima rappresentanza” – da quando il suo leader Dragan Covic è stato nuovamente sconfitto per il seggio croato della Presidenza da Zeljko Komsic, politico bosniaco di etnia croata ma di estrazione socialdemocratica, che è stato votato anche da molti elettori bosgnacchi. Estremamente critici riguardo a tale riforma sono i partiti bosgnacchi, tra cui l’SDA, che ritengono tale norma discriminatoria e progettata per favorire l’HDZ al quale verrebbe cosi garantito un potere di veto permanente.
La proposta dell’Alto Rappresentante Christian Schmidt (OHR) prevede che nei cantoni dove uno dei tre popoli non raggiunge il 3% del totale dell’entità questo non invii delegati alla Camera dei Popoli. Schmidt ha prima minacciato di imporre la riforma tramite i “poteri di Bonn”, ma dopo aver dovuto affrontare proteste di piazza si è limitato a imporre modifiche tecniche alla legge, volte a migliorare gli standard di integrità del processo elettorale, e ha rimandato ogni più drastica decisione di sostanza, augurandosi che i partiti possano trovare una soluzione a breve. Ma senza un intervento esterno sembra difficile che si arrivi a un accordo politico. Sulla base degli accordi di Dayton e della sessione di Bonn del Peace Implementation Council del 1997, l‘OHR può imporre decisioni vincolanti – anche di tipo legislativo – in caso le autorità si dimostrino incapaci o restie ad agire, ed ha il potere di rimuovere funzionari e politici che ostruiscano l’attuazione degli accordi di Dayton.
Un decennio di discriminazione istituzionale delle minoranze
Quella della riforma elettorale e della giusta rappresentanza delle minoranze è un tema che la Bosnia Erzegovina si porta dietro da ormai oltre dieci anni. Il sistema costituzionale bosniaco suddivide la popolazione in due grandi categorie: i cittadini che si riconoscono nei tre “popoli costitutivi” ovvero serbi, croati e bosgnacchi, e gli “Altri” (con la maiuscola), ossia tutti quei cittadini che non vi si riconoscono – perché membri di altre minoranze nazionali o cittadini senza altre etichette etniche. Questi ultimi non possono essere eletti alla Camera dei Popoli e alla Presidenza, vedendo cosi notevolmente limitati i propri diritti di partecipazione alla vita politica.
Tali forme di discriminazione sono state negli anni confermate dalle sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU). La prima, riguardo alla discriminazione etnica, è stata quella del 2009 nel caso “Sejdic-Finci”: Jacob Finci (ebreo) e Dervo Sejdic (rom), due cittadini bosniaci “Altri” ai quali è negata la possibilità di candidarsi alla Camera dei Popoli e alla Presidenza. La CEDU ha confermato che la Costituzione bosniaca è in violazione della Convenzione Europea sui Diritti Umani, che la Bosnia Erzegovina ha ratificato nel 2002.
La CEDU ha in seguito riconosciuto anche casi di discriminazione basata sulla residenza, come nel caso del 2016 di Ilijaz Pilav, cittadino bosniaco, residente a Srebrenica in Republika Srpska, ma di nazionalità bosgnacca – e come tale non candidabile alla Presidenza, poiché ogni candidato alla Presidenza proveniente dalla RS deve essere di nazionalità serba. Anche in questo caso la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la violazione della Convenzione.
Tali questioni aperte di discriminazione delle minoranze, basate sull’etnia e sulla residenza, sono rimaste irrisolte per oltre un decennio. Tra le altre cose perché l’HDZ BiH richiede che ogni soluzione prenda in considerazione anche la “questione croata”. Ma se le sentenze CEDU spingono all’apertura verso le minoranze e a un sistema basato più sul principio civico che su quello etnico, gli obiettivi politici dell’HDZ BiH sono di tipo opposto e intendono rafforzare la chiave etnica dei tre “popoli costituenti” e dei partiti politici che pretendono di rappresentarli in maniera esclusiva.
In questo contesto anche la situazione dell’Alto Rappresentante non è delle più semplici, poiché ricorrere ai poteri di Bonn per risolvere la “questione croata” e soddisfare le richieste dell’HDZ BiH andrebbe nel senso contrario dei principi messi in avanti dalla CEDU nell’ultimo decennio. Allo stesso tempo, Schmidt non ha il potere di risolvere la questione Sejdic-Finci, che richiede una riforma costituzionale che dipende anche dall’assenso dei partiti croati.
Nel frattempo, per la quarta volta, la Bosnia Erzegovina andrà al voto con un sistema costituzionale ed elettorale discriminatorio. Se dopo oltre dieci anni tali riforme non sono ancora state effettuate, non c’è da essere troppo ottimisti per il futuro.
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