La “fratellanza slava” e gli interessi geo-strategici russi nei Balcani dagli zar alla seconda guerra mondiale: il “grande gioco” balcanico.
Gli inizi dello status di superpotenza russa sono legati alla dinastia dei Romanov che fu intronizzata a Mosca nel 1613 e che nei secoli successivi, grazie anche a una serie di riforme che affrancarono, pur gradualmente e parzialmente, l’immenso paese dal pesante retaggio di arretratezza tardo-medievale, permise alla Russia di svolgere un ruolo sempre più importante nell’arena internazionale.
Uno stato in espansione
La Russia imperiale e zarista già allora aveva più o meno gli stessi confini attuali ed era già sterminata e vastissima: se nella parte asiatica si poteva considerare abbastanza sicura, in quella europea era praticamente indifendibile, senza barriere naturali a protezione dei centri nevralgici e quasi interamente pianeggiante. Con il più grande dei Romanov, Pietro detto appunto “il Grande”, il concetto di profondità strategica divenne il principio di base della politica di difesa della Russia e la sua intuizione fu di mettere quanto più terra possibile tra il Cremlino e i suoi vicini.
L’impero iniziò ad allargarsi inesorabilmente verso il Baltico, verso il Mar Nero, il Caucaso e l’Asia centrale e la profondità strategica restò per secoli il concetto cardine della politica (di sicurezza ma anche di influenza e di espansione ) russa, anche dopo la fine degli zar, in piena epoca sovietica, venendo poi recentemente rilanciata da Vladimir Putin.
Bizantinismo e panslavismo
In questo contesto storico e geografico, la vasta area balcanica rilevava particolarmente dal punto di vista strategico, ma a ciò si aggiungeva un fattore da non tralasciare, ovvero che quei territori erano perlopiù abitati da popolazioni slave e di fede ortodossa, esattamente come i russi. Questa dimensione etno-religiosa si correlava perfettamente a due idee-guida promosse dall’èlite russa al potere che esprimeva i Romanov: la prima era il bizantinismo, ovvero la fede nella comune origine culturale basata sull’ortodossia bizantina e sul primato di Mosca come “terza Roma”, erede di Costantinopoli dopo la caduta di quest’ultima nelle mani degli infedeli. Al bizantinismo si aggiunse a partire dall’ottocento una seconda ideologia, vale a dire il panslavismo, il cui presupposto e obiettivo era la creazione di un grande impero slavo sotto l’autorità della Russia zarista.
Entrambi i concetti, sostenuti dalle autorità zariste, dalla Chiesa ortodossa e dalla totalità dell’élite russa, tendevano al compimento della missione “messianica” della Russia dei Romanov, che sarebbe dovuta diventare il centro unificante per la liberazione di tutti gli slavi dall’oppressione dell’Impero Ottomano oltre che dall’influenza europea, cattolica e protestante, germanica in primo luogo (altrettanto nefasta secondo i panslavisti).
I Balcani come testa di ponte russa
Una delle frequenti guerre russo-turche, combattuta tra il 1768 e il 1774, si concluse con la sconfitta dell’Impero Ottomano in mare e in terra e con la pace firmata a Küczük Kajnardza, le cui condizioni garantirono una sorta di diritto della Russia a difendere la popolazione slava ortodossa che viveva nella penisola balcanica. Da quel momento, la Russia cercò di intervenire costantemente negli affari balcanici e di cogliere ogni occasione per rafforzare la sua posizione, diventando, dopo l’Impero Ottomano e quello asburgico, la terza forza di influenza nell’area balcanica: dietro la cortina sentimentale e ideale, vi erano concreti interessi strategici ed economici quali l’obiettivo dichiarato di controllare i Dardanelli assicurandosi l’accesso ai “mari caldi” e quello, meno ufficiale ma ben presente, di arrivare ad affacciarsi sull’Adriatico, pur indirettamente tramite i “fratelli” serbi e montenegrini.
Per tutto l’Ottocento e anche oltre, negli ambienti intellettuali venne idealizzato il legame religioso e culturale tra i popoli slavi e in Anna Karenina, il conte Vronskij, convinto della fratellanza tra russi, serbi e montenegrini, si arruolava volontario per partecipare all’ennesima rivolta di questi ultimi contro gli ottomani.
Il grande gioco
La “fratellanza slava”, strumentalizzata dalle autorità zariste, costituì il sostrato ideale del coinvolgimento russo nel “grande gioco” in atto nei Balcani che si protrasse per tutto il diciannovesimo secolo sfociando nelle guerre balcaniche del 1912-13 e nella rivoltellata di Sarajevo del giorno di San Vito del 1914, che a sua volta finì per incendiare l’Europa e il mondo intero: non a caso, la Serbia respinse l’ultimatum di Vienna contando sull’alleanza con la Russia, che in effetti entrò immediatamente in guerra al suo fianco.
Ma per l’impero russo la guerra mondiale terminò con la propria fine. L’Unione Sovietica emersa dopo la Rivoluzione d’Ottobre non riuscì a svolgere un ruolo significativo nella risistemazione dei confini nei Balcani sancita nei trattati di Saint-Germain e Trianon, dove furono la Francia, il Regno Unito, e finanche i lontani Stati Uniti a guida wilsoniana a imporre le loro visioni ideali e i propri piani concreti.
Nel periodo tra le due guerre, l’URSS svolse un ruolo limitato nella politica interna ed estera dei paesi balcanici, ma questo stato di cose cambiò radicalmente e in maniera dirompente per effetto del secondo conflitto mondiale e degli equilibri tra i vincitori che determinarono il nuovo assetto europeo delineato a Jalta e Potsdam.
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nell’immagine un fotogramma tratto dal film Anna Karenina