La parabola di Novi Sad

Le chiatte provenienti dal nord scivolano rapidamente lungo il fiume e scompaiono alla vista dopo aver virato verso sud per seguire l’ansa che costeggia la collina su su cui è situata l’enorme fortezza austriaca di Petrovaradin, eretta circa tre secoli fa a difesa del confine fra l’impero asburgico e quello turco.

Sotto di essa, il Danubio si allarga maestosamente per assumere le sembianze di un lago da cui emergono, sulla riva destra, insieme ai bastioni della piazzaforte, i dolci pendii della Fruška Gora, i cui aggraziati rilievi spezzano l’angosciante monotonia della pianura pannonica che si estende sulla riva sinistra del fiume, dove non bastano neppure le sagome delle abitazioni, dei palazzi e delle chiese di Novi Sad a movimentare il paesaggio.

La fortezza di Petrovaradin

Vista da Petrovaradin, la città appare austera e immobile, ferma come le scie bianche che le barche dimenticano dietro di loro mentre risalgono il Danubio e che, osservate dall’alto, somigliano alle arcate chiarissime abbandonate in cielo dai jet i quali, ad altissima quota, sorvolano instancabilmente la regione. Un movimento continuo, perpetuo attraversa il capoluogo della Voivodina senza però sfiorarlo e senza scuotere le architetture asburgiche di Jovan Jovanović Zmaj, l’arteria principale attorno alla quale si struttura il centro storico. L’antica vivacità commerciale di Novi Sad, borgo a cui Maria Teresa concesse nel 1748 lo status di “città reale libera”, sembra essersi trasferita in cielo o lungo il fiume e aver assunto una dimensione astratta, non tangibile, a tratti metafisica.

piazza Slobode e via Jovan Zmaj

piazza Slobode e via Jovan Zmaj

Per ritrovare la vitalità della città e per accorgersi delle profonde contraddizioni che la animano, bisogna trasferirsi nei quartieri nuovi, lasciarsi il Danubio alle spalle e perdere di vista il cielo che, sul mare come lungo i fiumi, pervade lo spazio e oscura, con la sua chiarità, ciò che accade in terra. Novo Naselje, Sajmište, Satelit, sono solo alcuni dei quartieri che si estendono verso nord e in cui si costruisce di continuo. Novi Sad è un cantiere a cielo aperto: da circa un decennio le guerre balcaniche vomitano sulla Voivodina colonne di profughi, venuti in un primo momento dalla Croazia e dalla Bosnia e successivamente dal Kosovo. Per loro si edificano nuove case, palazzine e condomini.

il quartiere periferico di Novo Naselje

Esattamente come è accaduto in Istria, i profughi hanno snaturato il carattere interetnico della città. Novi Sad, infatti, dimentica a poco a poco la propria dimensione mitteleuropea e si rinchiude in sé stessa: il meticciato che è stato per tre secoli la caratteristica predominante di questo centro urbano si va inesorabilmente perdendo. L’Europa, con i suoi traffici e i suoi movimenti, viene confinata sulle chiatte lungo il corso del Danubio o scorre indifferente in cielo, insieme agli aerei ad alta quota. Novi Sad, e con lei l’intera Voivodina, si allontana sempre di più dal fiume da cui è nata e sulle cui rive per decenni si è incontrata la cultura balcanica con quella dell’Europa centrale. Qui hanno vissuto insieme serbi, croati, ungheresi, russini (o ruteni), i tedeschi che hanno bonificato le paludi della Voivodina trasformandole in una fertile pianura, ebrei, slovacchi, rumeni.

Proprio come in Istria, anche in Voivodina la Storia è stata impietosa: i tedeschi se ne sono andati alla spicciolata dopo il 1945, quando la maggior parte degli ebrei era già stata uccisa o deportata nei campi di concentramento dai nazisti. I rumeni stanno a poco a poco scomparendo e gli ungheresi sono ridotti al 5% della popolazione, nonostante per loro Novi Sad sia stato un centro culturale importantissimo: qui è nata infatti la rivista Új Symposion che, come osserva lo scrittore e giornalista Laslo Vegel, ha dato impulsi rivoluzionari a tutta la cultura magiara durante gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

L’antico borgo asburgico, crocevia di culture e di commerci, si è dovuto inginocchiare alla politica di Belgrado degli anni Novanta, durante i quali Milošević ha tolto a poco a poco lo status di provincia autonoma alla Voivodina e al suo capoluogo: come una bestia riottosa lentamente addomesticata, Novi Sad è stata costretta a distogliere lo sguardo dal Danubio e a rinnegare la sua anima mitteleuropea per sprofondare in una prospettiva nazionalistica e balcanica. Osserva ancora Laslo Vegel che la città ha perso l’opportunità di diventare la Trieste dell’est, il topos, il luogo comune per eccellenza in cui ogni nazionalità si sarebbe potuta incontrare per “tradursi” (dal latino traducere, portare al di là) in culture altre. Mentre le grandi capitali europee vanno verso la “creolizzazione” e il meticciato, Novi Sad, che ha conosciuto questo fenomeno con almeno tre secoli di anticipo, percorre la strada opposta e cerca di uniformare i propri cittadini in base a principi nazionali e nazionalistici, a scapito delle componenti nazionali minoritarie.

Un processo deleterio, pericoloso e che potrebbe trasformare la città in una anonima provincia serba. Eppure, nonostante il quadro non sia esaltante, qualcosa dell’antica grandezza sembra resistere: la tolleranza, l’ironia e l’apertura alla diversità degli abitanti di Novi Sad e della Voivodina è sopravvissuta. Da Sombor a Vršac, da Subotica a Sremska Mitrovica fino ai piccoli villaggi di campagna del Banato, nei mercati e nelle piazze urbane, così come nei circoli letterari e nelle aule dell’Università della stessa Novi Sad, si respira ancora lo spirito mitteleuropeo che aleggia nei romanzi di Danilo Kiš.

La cultura in questo caso può fare poco e l’ultima parola spetta alle istituzioni. La politica, però, a cominciare dal Partito democratico del presidente Boris Tadić, sembra non aver ancora del tutto compreso che solo l’apertura all’Europa e al mondo permetterebbe a Novi Sad di ritrovare il suo antico ruolo di “luogo comune”, di centro del dialogo e del confronto fra le diversità. Ciò che manca alla Serbia è una classe dirigente che, anziché limitarsi a suonare la grancassa propagandistica del Kosovo, metta l’intera società davanti alle proprie responsabilità, soprattutto quelle legate alle guerre degli anni Novanta.

Mancano inoltre intellettuali dello spessore di Günter Grass, i cui romanzi sono uno specchio davanti al quale la nazione tedesca vede sé stessa e le proprie connivenze con il regime nazista. La Serbia è ancora lontana dal compiere un’operazione simile e Novi Sad, una delle culle della laicità e dell’incontro fra le diversità durante l’impero asburgico, lentamente muore, soffocata dalla storia recente e dalle centinaia di migliaia di profuhi che ne hanno snaturato il carattere originario. Il Danubio che lambisce la città non è più una via di comunicazione concreta, ma un mare astratto, metafisico, che isola e non protegge.

Chi è Christian Eccher

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9 commenti

  1. Bellissimo articolo Christian: ho avuto l’opportunità di visitare Novi Sad nel 2005 e mi ci ritrovo.
    Ti segnalo due miei pensieri sul tema:
    1) l’omogeneizzazione non è forse il destino di pressoché tutte le “città imperiali”, al tempo degli stati-nazione? Dove sono finiti i tedeschi di Praga, gli ebrei di Varsavia, gli ungheresi di Bratislava? Il XX secolo ci ha restituito stati funzionanti ma basati sul presupposto etno-nazionale;
    2) non c’è il rischio di dare la “colpa” di tale perdita di carattere della città ai “profughi”, che già soffrono lo sradicamento e l’inurbamento, quando invece bisognerebbe risalire alle responsabilità politiche di tali cambiamenti demografici? altrimenti, i profughi serbi di Kraijna, Bosnia e Kosovo si ritroveranno lo stesso stigma dei nostri giuliano-dalmati – così come è già oggi per i serbi di Lubiana.

    A rileggerti presto!
    Davide

  2. Ottimo spaccato di una realtà davvero affascinante. Sarebbe interessante sapere come hanno influito tutti questi cambiamenti sull’economia del posto…

  3. Davide mi hai preceduto.E’ incredibile come questo giornalista affermi che la città sia “soffocata” dai profughi,come dire che la colpa(di cosa?della perdita della multiculturalità?) sia loro!Inoltre come al solito si contrappone,in modo tra l’altro non troppo implicito,la presunta superiorità della cultura mitteleuropea rispetto a quella balcanica,considerata “rozza” e volgare,portatrice di guerre(i tedeschi ovviamente sono degli agnellini).Vorrei capire in cosa si traduce nella pratica la prospettiva nazionalistica e balcanica della città di Novi Sad.

    • Mi sfugge qualcosa. Se gli immigrati che grossolanamente definiamo Islamici, i Rumeni, i Polacchi, gli Ucraini costituiscono per il nostro paese una ricchezza per l’apporto di nuove culture perché lo stesso non dovrebbe avvenire per Novi Sad, città ungherese fino al 1921 e passata alla Jugoslavia a seguito dei Trattati di pace della Grande Guerra?
      A Nikola vorrei sommessamente chiedere se si può sostenere che la civiltà greca é stata superiore a molte altre e dove l’autore, al quale quanto meno va riconosciuto di scrivere con eleganza, abbia parlato di cultura balcanica ‘portatrice di guerra’.

  4. Sebbene ci siano qualche idee e osservazioni fortemente discutibili, e’ sempre interessante sentire l’opinione di uno “spettatore esterno”…

  5. Certo che sono una cosa positiva,ma non diamo la colpa ai profughi,piuttosto diamola ai politici degli anni ’90 che hanno voluto la guerra.Comunque,scusi ma nominando una “prospettiva nazionalistica e balcanica”,inserita nel contesto della dittatura di Milosevic,il collegamento con la guerra mi pare diretto.

  6. Marta De Angelis

    L’autore ha scritto un’ottima introduzione e poi è caduto nelle tentaioni politiche, volendo descrivere Novi Sad in un modo non proprio verosimile! “Novi Sad è un cantiere a cielo aperto: da circa un decennio le guerre balcaniche vomitano sulla Voivodina colonne di profughi, venuti in un primo momento dalla Croazia e dalla Bosnia e successivamente dal Kosovo. Per loro si edificano nuove case, palazzine e condomini.” Gentile autore, prima di scrivere un pensiero come questo, informati bene quando sono stati costruiti i quartieri che descrivi! E poi, non è per niente vero che sono stati costruiti per raccogliere i profugi, ma molti decenni prima. E perché segui una linea provocatoria cercando di creare i conflitti anche se in realtà non ci sono: “Qui hanno vissuto insieme serbi, croati, ungheresi, russini (o ruteni), i tedeschi che hanno bonificato le paludi della Voivodina trasformandole in una fertile pianura, ebrei, slovacchi, rumeni.” E ora non vivono? Cosa vuoi dire, i9 profughi hanno fatto pulizia etnica dentro Novi Sad negli ultimi 20 anni? E si vede alla fine che della politica ti intendi troppo poco: la regione autonoma della Vojvodina ha il proprio Parlamento ed è forse l’unica regione in cui 6 lingue diverse sono riconosciute come ufficiali, tutte le minoranze etniche hanno i Consigli nazionali, centri culturali, mezzi di comunicazione e scuole nella lingua madre. Qualche volta bisogna allargare gli orizonti, guardare sempre dritto, mai dietro e mai accanto crea un’immagine troppo soggettiva e troppo unilaterale.

  7. non capisco, avevo già scritto un commento a questo bellissimo articolo, ma non è comparso. Non sono mai stata a Novi Sad, ma me ne rende il profumo, l’aria, la storia passata lontana, quella della guerra e quella presente. Fa venire voglia di venire a conoscere questa città che è stata multietnica pacificamente e ora deve fare i conti con le ferite della guerra. Ho scritto un libro sulla guerra dei Balcani (Una di quelle era la mia casa) perciò anche senza esserci stata credo di conoscere un poco le difficoltà, Capisco che sia passato poco tempo, relativamente, eppure il futuro di una città, di un paese, è salvo quando si riesce a rivedere autocriticamente i propri errori. Anche in Italia spesso mi sembra che le persone dimentichino troppo facilmente che, se poi la Germania ha fatto molto peggio con il nazismo, il fascismo sia nato qui. Non si deve dimenticare perchè i bacilli che hanno lavorato a creare i malanni sono sempre attivi e occorre riconoscerli per disattivarli Tutta la fase di odio precedente alla guerra, spesso seminata anche all’interno delle Università, che ho letto nei documenti, non può essere dimenticata, anche le parole sono pietre, poi la crisi economica ha fatto il resto. L’articolo di Eccher va a scandagliare nelle migliori energie di Novi Sad e mette in luce le difficoltà, con amore e con il desiderio che dalle energie si ripeschi la forza di superare le difficoltà. Mai facendo gli struzzi, una pratica deleteria a livello personale ma anche di popoli. Gli intellettuali hanno un ruolo fondamentale, in questo e debbono farsene carico. Abbiamo tutti pianto per le guerre balcaniche, che hanno riportato in Europa la guerra dopo 50 anni. L’umanità deve e può trovare un altro modo di risolvere i suoi problemi di convivenza. Con l’ascolto, con la mediazione, riconoscendosi reciprocamente le proprie ragioni. Nulla che sia facile, ma se si considera quanto male la guerra abbia fatto ai Balcani, nessuno che sia saggio e ami davvero la sua terra può non criticare quella sciagurata pagina di storia

  8. Io mi reputo sostanzialmente d’accordo con l’autore nel dire che “i profughi hanno snaturato il carattere multietnico della città”. Questo non vuole escludere le responsabilità politiche o le altre cause, ma vuole evidenziare come i profughi serbi, a causa della loro storia recente, si sono inseriti nel contesto sociale della regione senza voler accettare la multiculturalità o le minoranze presenti, ma anzi con un senso di rivalsa su quello che hanno passato in kosovo, bosnia o croazia.
    In Vojvodina le diverse nazionalità hanno sempre vissuto una a fianco all’altra, non sempre pacificamente però, e anche negli ultimi anni ci sono episodi di pestaggi o violenze contro le minoranze. Io per esempio ero a Subotica nei giorni dell’idipendenza del kosovo e vi posso assicurare che in città c’era un aria molto pesante, più persone mi sconsigliarono di parlare in pubblico in ungherese, questo nonostante l’ungherese sia una lingua ufficiale della regione.
    La riacquisizione dell’Autonomia inoltre non nasconde un decennio di nazionalismo e di politiche centraliste di belgrado. Ci sarà un motivo se la vojvodina è piena zeppa di nostalgici della yugoslavia e di Tito…..

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