di Lorenzo Serafinelli
L’atteggiamento ambivalente mostrato sin qui dalla Serbia nei rapporti con la Russia e con l’Unione europea è in continua evoluzione. La recente decisione del governo serbo di allinearsi alle sanzioni contro le finanze e il sistema dei trasporti della Bielorussia, adottate con la decisione 2022/ 579 dal Consiglio europeo lo scorso 8 aprile, sembra essere un lieve passo verso una forma di condanna dell’aggressione russa ai danni dell’Ucraina, e di conseguenza un tassello per l’avvicinamento del paese all’UE. D’altro canto, però, la Serbia continua a non aderire alle sanzioni dirette contro Mosca, e il recente accordo sul gas raggiunto con Putin lascia intendere che l’asse tra i due paesi resta in piedi.
Sanzioni per Minsk
Con la scelta di aderire alle sanzioni alla Bielorussia, resa ufficiale il 22 aprile in un comunicato sul sito del Consiglio Europeo, il presidente serbo Aleksandar Vučić si conforma alla posizione già assunta dagli altri paesi della regione.
Tutto questo, all’apparenza, va in direzione dei continui appelli fatti negli ultimi mesi dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’UE, Josep Borrell, affinché la Serbia accettasse la linea promossa dai Ventisette sulle sanzioni a Mosca, e tende a confermare quel vento gelido che spira sulle relazioni russo-serbe dopo il paragone azzardato da Vladimir Putin tra il caso del Kosovo e l’indipendenza delle province separatiste di Donetsk e Luhansk.
Il ruolo dell’energia e del sentimento popolare
E’ realmente questa la linea intrapresa dal presidente Vučić e dal suo Partito Progressista Serbo (SNS)? Fino allo scorso 3 aprile, giorno delle elezioni che hanno portato alla riconferma di Vučić alla presidenza e del SNS al governo, la Serbia si era volutamente sottratta dall’ assumere una posizione precisa tra i due attori. Parliamo, nel caso dell’Unione europea, del maggior partner commerciale del paese, mentre la Russia rappresenta, ancora oggi, il principale alleato politico nella comunità internazionale. Belgrado, inoltre, dipende quasi totalmente (90%) da Mosca sotto il profilo energetico, e la NIS (Naftna Industrija Srbije), ovvero l’industria petrolifera serba, è proprietà di Gazprom al 56%.
Non sorprende dunque il recente accordo raggiunto dal presidente serbo in una telefonata con Putin dello scorso 29 maggio, che prevede, secondo le informazioni fornite da Belgrado, una fornitura di gas dalla Russia alla Serbia per i prossimi tre anni, sulla base di un prezzo allineato al prezzo del petrolio. Un accordo che non copre l’intero fabbisogno energetico della Serbia, che dovrà, secondo le dichiarazioni del presidente serbo, trovare un ulteriore accordo con Gazprom, ma che è stato festeggiato da Vučić come un successo, dato che la Serbia godrà del gas “al prezzo più basso in Europa”.
Tuttavia, oltre alla imprescindibile subordinazione nel campo dell’energia, il silenzio assenso delle istituzioni serbe sembrava più strizzare l’occhio, in vista delle elezioni del 3 aprile, al sentimento popolare maggioritario, fortemente impregnato di propaganda filo-russa sin dai bombardamenti del 1999 ad opera della NATO ed espresso concretamente attraverso proteste di piazza a favore di Mosca. Da sempre infatti, nell’immaginario collettivo, russi e serbi esprimono una comunanza sul piano religioso e culturale, perfettamente sintetizzata nella corrente “panslavista”, la quale auspica, seppur declinata in diverse varianti, l’unione di tutti gli slavi. Sposare le sanzioni e condannare sin da subito l’aggressione avrebbe significato, perciò, inimicarsi una larga parte dell’elettorato.
Serbia-UE: un rapporto complicato
Le già citate dichiarazioni di Putin sul Kosovo di recente hanno certamente raffreddato i rapporti ai piani alti tra Mosca e Belgrado, ma è chiaro che l’avvicinamento alle posizioni di Bruxelles non fosse conveniente almeno sino al giorno del voto, e la scelta non fa altro che riflettere il percorso, difficile sin dal principio, di integrazione europea della Serbia.
Infatti, nonostante il 2022 si fosse aperto, secondo le conclusioni del Consiglio di stabilizzazione e associazione UE-Serbia riunitosi il 25 gennaio, con un miglioramento del livello di allineamento agli standard necessari per l’ingresso nell’Unione, il conflitto russo-ucraino ha cambiato tutte le carte in tavola e offuscato anche i progressi sullo Stato di diritto ottenuti tramite l’approvazione della riforma del sistema giudiziario. L’auspicio del vertice di inizio anno era stato di una maggiore sintonia serba alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE, ma è proprio questo il campo che ad oggi separa bruscamente i due protagonisti. Se nel 2009 il consenso dei cittadini all’ingresso nell’UE, immaginato come la via per risolvere i mali endemici del paese, si attestava attorno all’80%, secondo un recente sondaggio dell’Ipsos, pubblicato sul quotidiano Blic il 21 aprile, tale consenso è sceso nell’ultimo periodo al 35%.
Alla luce di tale malcontento possono essere lette le scelte di Vučić di allinearsi alle sanzioni imposte alla Bielorussia e, poco prima, a quelle simboliche dirette contro l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovych. Entrambe infatti sono le misure più “blande” tra quelle comminate dall’UE agli alleati di Mosca, e lo scopo della loro adozione è evidentemente danneggiare il meno possibile le relazioni con l’alleato russo. Belgrado, non a caso, non ha adottato le sanzioni europee dirette alla Russia stessa, confermando questo difficile equilibrismo. Secondo alcuni, il recente accordo sul gas dalla Russia può essere letto come una sorta di ricompensa di Putin per questa scelta, una tesi subito smentita dal primo ministro Ana Brnabić.
Inoltre, per comprendere il peso del ruolo giocato dall’opinione pubblica nelle decisioni fin qui elencate, basti pensare al fatto che l’allineamento della Serbia alla misura restrittiva nei confronti di Yanukovych è apparsa sul sito web dell’UE il 12 Marzo, ma i cittadini ne sono venuti a conoscenza solo tre giorni dopo dai media dei “vicini” sloveni e croati.
Politiche ambigue e complicati equilibri
Proprio volgendo lo sguardo ai vicini di casa, la Serbia è ben lontana dalle percentuali di allineamento alla politica estera dell’UE che si riscontra negli altri attori statali dei Balcani Occidentali. Montenegro, Albania e Kosovo risultano completamente armonizzate alle politiche sul tema, mentre le percentuali di Macedonia del Nord e Bosnia Erzegovina, rispettivamente il 96% e il 70%, sono ad ogni modo più soddisfacenti del 62% raggiunto da Belgrado. Perciò, mentre i partner balcanici viaggiano verso l’integrazione, anche se con non poche difficoltà di adeguamento agli standard, la risposta di Vučić agli appelli di Borrell per una chiara condanna alle azioni di Putin appare ancora una volta tiepida e ambigua.
Tutto ciò, considerando le evidenti carenze della Serbia attuale in tema di standard democratici e le delicate questioni riguardanti i rapporti con il Kosovo e la Bosnia Erzegovina, rende la scelta della Serbia di adeguarsi alle sanzioni contro Minsk un piccolo passo per il suo processo di avvicinamento all’UE, non sufficiente per raggiungere un reale allineamento alle politica estera di Bruxelles. Fin quando, dunque, il presidente serbo continuerà a presentare la Serbia come un attore che persegue una politica altalenante nel sistema internazionale, equidistante tra Occidente e Russia, il percorso verso l’Unione europea rischia di diventare ancor più difficile e tortuoso, e la Serbia rimarrà, forse volutamente, in un complicato equilibrio.
Foto: EuraActiv