La chiusura della raffineria di Ballsh, situata nella regione di Fier, nell’Albania meridionale, è ormai definitiva, per lo meno per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi cinquant’anni. Inattiva da tempo, da quando nel gennaio del 2019 la società che la operava, la Tosk Energji, aveva deciso di interrompere la produzione, l’impianto è oggi in via di smantellamento. Al rumore delle colonne di distillazione e degli scambiatori di calore si è ora sostituito quello delle fiamme ossidriche che la stanno facendo a pezzi e dei camion che se la portano via. Venduta a peso, come un ferro vecchio, una roba da rigattieri.
Una storia travagliata
La storia della raffineria di Ballsh fonda le sue radici all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso quando, su volere del dittatore dell’Albania Enver Hoxha, fu costruita nell’omonima cittadina nel distretto di Mallakaster, ricco di giacimenti di petrolio. Ballsh era quindi il posto perfetto dove ubicare un impianto per la raffinazione del petrolio che veniva estratto dai numerosi pozzi disseminati in tutta l’area e, dunque, per alimentare il desiderio autarchico – prima – e paranoide – poi – del regime comunista.
È così che la raffineria di Ballsh – e la società Ballsh Combine che la gestiva – divenne nel giro di pochissimo tempo la più importante del paese con una produzione che arrivava a sfiorare le due milioni di tonnellate di greggio all’anno.
Dura poco, il crollo del valore del greggio di inizio anni ’80 segnarono l’inizio di un lento, ma irreversibile, declino della raffineria. Al punto che, alla fine dell’era Hoxha e alla successiva caduta del regime comunista, l’impianto si trovava, di fatto, in condizioni fallimentari. Gli anni ’90, i primi dell’era post-comunista, sono anni di transizione e di riorganizzazione, ma per vedere l’impianto nuovamente attivo bisognerà aspettare il 2004 prima che venga sostanzialmente privatizzato con la sua vendita all’Albanian Refinery & Marketing of Oil (ARMO) per l’85%.
Dalle privatizzazioni agli scioperi della fame
È il 2008 e l’amministratore delegato della ARMO Energy è Rezart Taci, uomo vicinissimo all’allora premier albanese, Sali Berisha. Un’acquisizione che fece storcere, dunque, più di un naso. La gestione ARMO sarà rovinosa e quando alla fine del 2013 Taci molla, è sommerso da una montagna di debiti: 500 milioni di dollari, l’equivalente dell’intero capitale.
I successivi tentativi di gestione e i vari passaggi di mano – fino a quello verso il trader petrolifero albanese Tosk Energji – si riveleranno del tutto velleitari. In un contesto in cui la pandemia ha messo in crisi tutto il comparto petrolifero (con un calo della domanda che in Albania è arrivato al 25%), la storia degli ultimi anni della raffineria di Ballshi è una storia di proteste e di scioperi, di stipendi non pagati e, addirittura, di minacce di suicidio e scioperi della fame: l’ultimo, in ordine di tempo, quello portato avanti da quindici operaie nell’ottobre del 2020 e protrattosi per diverse settimane.
Una nuova vita?
La febbricitante operazione di smantellamento di questi giorni, dunque, non riguarda solo il ferro e le strutture, le viti e i bulloni. Ma è anche lo smantellamento del tessuto sociale che si era creato intorno allo stabilimento, alle centinaia di posti di lavoro che esso assicurava e agli altrettanti licenziamenti che la sua chiusura ha comportato. E, ancora, è lo smantellamento di tutto l’indotto, della ricchezza che creava nell’area, unica vera alternativa all’attività agricola e alle poche industrie tessili esistenti. Lo Stato ha assicurato una sorta di cassa integrazione, uno stipendio minimo per tre anni, ma ora non può più nulla.
È un’operazione, tuttavia, che per quanto dolorosa sottende a una nuova opportunità. E la nuova opportunità sembrerebbe quella offerta dalla Shijaku Company, società di costruzione attiva nella realizzazione di impianti civili e industriali, che deve il suo nome al fondatore – e attuale amministratore – Shpetim Shijaku.
E’ lui che ha rilevato ciò che fu della raffineria ed è lui che la sta demolendo: l’intenzione è quella di fare dell’area un parco solare che, entro la fine dell’anno prossimo, sia in grado di produrre 1000MW di energia elettrica pulita. Un’occasione per creare nuovi posti di lavoro e un’occasione, anche, per mettere mano alla riqualifica ambientale di un sito devastato da mezzo secolo di attività che lo ha reso “una bomba ambientale ad orologeria”, secondo quanto ammesso dallo stesso Ilir Bejtja, viceministro dell’Energia e dell’Industria.
E, infine, un’occasione anche per supplire alla crescente “fame” di energia elettrica che l’Albania ha. Energia elettrica che viene prodotta quasi esclusivamente dalle centrali idroelettriche rendendo il paese vulnerabile, specie nei periodi di siccità: problema emerso in tutta la sua drammaticità nell’autunno scorso. La necessità di diversificare strutturalmente le fonti di approvvigionamento, quindi, è di primaria importanza per l’Albania e, in questo, la “nuova “Ballsh” potrà giocare un ruolo di primaria importanza.
Foto: albanianews.it