Ci sono voluti quasi due mesi, il tempo necessario a raccogliere prove, testimonianze, filmati, ma alla fine la verità sembra essere emersa in tutta la sua evidenza. Le vittime del bombardamento al Teatro di Mariupol’, avvenuto lo scorso 16 marzo da parte dei russi, furono circa 600. Ci è voluto più di un mese, com’è ovvio che sia in un contesto di guerra, affinché i giornalisti dell’Associated Press – Lori Hinnant, Mystislav Chernov e Vasilisa Stepanenko – potessero condurre un’indagine completa, pubblicando anche la metodologia con cui è stata condotta l’inchiesta. Per coloro che avranno voglia di leggere, un lungo articolo corredato di fonti spiega cosa è successo.
In questi due mesi abbiamo dovuto assistere al triste carosello di coloro che hanno negato o minimizzato i fatti. Fatti che andavano accertati prima di precipitarsi a definirli “frottole“, come scrisse Donatella Di Cesare, ordinaria di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, e prima di pubblicare manifesti e proclami asserendo che loro – gli ex giornalisti di guerra, Capuozzo, Negri, Sgrena – potevano dire che quella del Teatro di Mariupol era solo propaganda.
L’indagine dei giornalisti di AP confuta anche le affermazioni russe secondo cui il teatro sarebbe stato demolito dalle forze ucraine o utilizzato come base militare ucraina. Nessuno dei testimoni ha visto soldati ucraini operare all’interno dell’edificio che tutti sapevano essere il più grande rifugio antiaereo della città, con i bambini dentro.
Dall’inizio dell’assedio a Mariupol’, un numero crescente di civili ha trovato rifugio nella struttura. Circa una settimana prima dell’attentato, lo scenografo del teatro ha usato della vernice bianca per scrivere la parola “bambini” in lettere cirilliche sul marciapiede esterno, nella speranza di scongiurare un attacco dall’alto. I segni, dipinti sia nell’ingresso anteriore che in quello posteriore, erano abbastanza grandi da poter essere letti anche dai satelliti.
Il 9 marzo, un attacco aereo russo ha colpito l’ospedale pediatrico che si trovava a pochi isolati di distanza e due o tre donne incinte si sono trasferite al teatro per sicurezza, secondo le testimonianze raccolte dai giornalisti di due dipendenti del teatro, attive fin dalle prime ore dell’assedio nel tenere aperta la struttura e accogliere i profughi. Alle donne, insieme alle famiglie con bambini piccoli, sono stati assegnati gli spogliatoi più comodi al secondo piano, lungo un corridoio dietro il palco. Una scelta che ne segnerà fatalmente il destino.
A seguito dei pesanti cannoneggiamenti – anche quindici ore consecutive – cui era sottoposta la città, che hanno colpito indiscriminatamente edifici residenziali, l’unico rifugio possibile rimasto era proprio il teatro.
Al 15 marzo, circa 1.200 persone erano stipate nell’edificio, dormendo in uffici, corridoi, balconi, seminterrato, lungo i corridoi curvilinei e il dedalo degli uffici e degli spogliatoi dietro le quinte. I sedili un tempo lussuosi della platea venivano usati come legna da ardere per cucinare. Nessuno dormiva sul palco, sotto la cupola, sentendosi esposti a pericolo in caso di attacco.
L’attacco aereo è avvenuto intorno alle dieci del mattino, colpendo esattamente il palco e la cucina da campo esterna. Victoria Dubovytska, 24 anni, aveva appena piegato le coperte in una pila nella sala di proiezione dove si trovava con la figlia di due anni, Anastasia, e il figlio di sei anni, Artem. Quando la bomba ha colpito l’edificio, sono stati scagliati contro il muro. Le coperte, cadendo sopra la bambina, ne hanno protetto il piccolo corpo dalle macerie che sono subito cadute dall’alto. Yulia Marukhnenko aveva affittato un appartamento vicino al teatro. Quando ha sentito l’esplosione, è uscita a soccorrere le vittime. La cucina da campo non c’era più, erano tutti sepolti. Così si è precipitata negli scantinati: braccia e gambe sparse in giro, corpi senza arti, ossa che spuntavano dalle macerie. Anche i feriti sono morti rapidamente, senza cure e senza ospedali funzionanti.
Le loro testimonianze sono solo alcune tra quelle raccolte e confrontate dai giornalisti, che hanno ricostruito la dinamica degli eventi, il punto di caduta dell’ordigno, il susseguirsi dei crolli, la collocazione delle vittime, i loro nominativi. Il computo iniziale delle vittime, realizzato dalle autorità ucraine, che indicava circa 300 vittime, si è rivelato sbagliato perché molti dei corpi, fatti a pezzi o polverizzati dall’esplosione, non sono stati ricomposti.
Le truppe russe vogliono prendere il controllo di Mariupol’ a causa del suo valore strategico come porto e collegamento tra i territori del sud e quelli orientali del Donbass. I russi non vogliono conquistare Mariupol’, vogliono distruggerla. Un monito per le città che decidono di non arrendersi. E poco conta che Mariupol‘ sia una città a maggioranza russa. I russi non sono andati a salvare i “russofoni” dal genocidio, dalla persecuzione di ipotetici “nazisti”. Il Battaglione Azov ha difeso una città russofona, i russi l’hanno rasa al suolo. E hanno bombardato un teatro che non era un obiettivo militare, non nascondeva armi, ma serviva da rifugio alle famiglie.
Se non basta questo a sollevare il velo sulle menzogne e sulle retoriche di chi parla di “frottole” e si diverte a confondere le vittime con i carnefici, diffondendo consapevolmente o meno la propaganda del Cremlino, allora il sacrificio di Mariupol’ sarà del tutto inutile.
Foto: Zhivora, CC BY-SA