Quando alla vigilia dei quarti di finale del mondiale di calcio italiano del 1990 l’allenatore della selezione jugoslava, Ivica Osim, decise di escludere dall’undici titolare Srecko Katanec, molti rimasero sopresi. La posta in gioco era altissima e l’Argentina dell’astro Maradona un avversario di prim’ordine. E in tutto ciò Katanec era una colonna inamovibile della formazione, corsa e sostanza in un centrocampo di artisti, pigri come si conviene agli artisti: sloveno di Lubiana, per Osim, Katanec era jugoslavo e basta.
Ma la Jugoslavia di quel giorno di fine giugno era un paese in ebollizione e le crepe irreversibili della federazione già ben visibili: dopo nemmeno un anno la Slovenia avrebbe dichiarato la propria indipendenza. La famiglia dello sloveno Katanec, infatti, aveva ricevuto minacce di morte, meglio farlo sedere in panchina. A raccontarlo fu proprio Osim, tempo dopo.
Se ne va un altro pezzo di Jugoslavia
Osim è morto il primo maggio scorso, e con lui se ne va un altro pezzo della Jugoslavia che fu: l’ultimo allenatore di una nazionale di fenomeni – il Brasile d’Europa, come si diceva all’epoca –; l’ultimo allenatore di una squadra che a Italia 90 mostrò un formidabile miscuglio di talenti e di origini: il serbo Dragan Stojković, il bosniaco Safet Sušić, il croato Robert Prosinečki, il montenegrino Dejan Savićević, solo per ricordarne alcuni.
Occorre, però, sgombrare il campo dalla tentazione del quadretto idilliaco, quello della concordia tra i giocatori, dell’amicizia trasversale, dell’insensatezza delle distinzioni: no, “bisognava stare attenti al nome, alla religione, al club, alla regione del Paese da cui proviene un giocatore. Dovevi calcolare tutto. Tutto è politica. Ogni club era politica e soprattutto la nazionale era politica“.
A parlare così è proprio Osim, bosniaco di Sarajevo, quella Sarajevo che si troverà sotto le bombe dopo meno di due anni dall’eliminazione ai quarti contro l’Argentina. E la spaccatura di quello spogliatoio fu, per molti osservatori, alla base dei mancati successi di una rappresentativa altrimenti fortissima, piedi buoni e testa calda.
Quando, dopo 120 minuti in cui il risultato non si era schiodato dallo zero a zero inziale, l’argentino Sergio Goycochea si protese alla sua sinistra intercettando il tiro dal dischetto calciato dal bosniaco Faruk Hadžibegić, la Jugoslavia dovette abbandonare il suo sogno mondiale: “Mi chiedo cosa sarebbe successo se la Jugoslavia avesse giocato in semifinale o in finale, cosa sarebbe successo al Paese. Forse non ci sarebbe stata la guerra se avessimo vinto la Coppa del Mondo”, rievoca Osim con rammarico e con una certa sopravvalutazione del potere catartico del pallone.
La fine della nazionale
Occorreranno però altri due anni per assistere alla fine della nazionale jugoslava: è il maggio del 1992, la squadra guidata da Osim ha conquistato la qualificazione al campionato europeo che si terrà solo due settimane dopo in Svezia, ma l’allenatore molla il colpo. Dopo sei anni, Osim decide di lasciare la guida di una compagine che ormai non aveva più senso, diventata anacronistica da un giorno con l’altro, una nazionale senza nazione, già priva di sloveni e croati.
Osim, il bosniaco, aveva già dovuto assistere, impotente, alle prime bombe sulla sua città, alla pulizia etnica perpetrata dalle milizie serbo-bosniache nella valle della Drina, agli orrori assortiti della guerra che s’affacciava sulla sua terra e che, lì, vi sarebbe rimasta per quasi un lustro ancora: “L’unica cosa che posso fare per la mia città”, disse.
Impossibile far finta di niente, impossibile persino per la FIFA, la federazione internazionale calcistica, che decise di escludere la nazionale jugoslava dal torneo e da qualsiasi altra competizione. La squadra jugoslava non c’era più, Osim era stato il suo ultimo allenatore. A sostituirla agli europei sarà quella Danimarca che poi, clamorosamente, vincerà il torneo: una specie di destino, tra beffa e meraviglia.
L’omaggio della sua città
Tenterà fortuna altrove: Grecia, Francia, Austria, Giappone. Qui diventa popolarissimo allenatore della nazionale locale, tanto popolare che la sua biografia vende quattrocentomila copie, un bestseller editoriale.
Ma Sarajevo è la sua città e l’FK Željezničar – la squadra cittadina dove Osim aveva tirato i primi calci professionistici – decide di nominarlo presidente onorario del club. E’ il 2017 e Osim è malato da tempo, mai veramente ripresosi da un ictus che dieci anni prima aveva posto fine alla sua carriera.
Domenica sera i riflettori dello stadio Grbavica, dove gioca l’FK Željezničar e dove Osim divenne “Strauss” per l’eleganza del tocco, sono stati accesi in suo tributo alla presenza di tantissimi tifosi. Ottantuno lunghi minuti, tanti quanti gli anni che l’ex allenatore avrebbe celebrato solo pochi giorni dopo. Un suo gigantesco ritratto è stato proiettato sulla facciata del municipio di Sarajevo, omaggio all’ultimo allenatore di un’epoca morta e sepolta con lui. Un’epoca finita con la panchina di Katanec.
(Foto: Sofoot.com)