La guerra è fatta di persone, le loro storie sono la guerra. Queste sono traduzioni, riassunti, testimonianze riprese da altri media internazionali che riportiamo al pubblico italiano affinché, uscendo finalmente dalle bolle social e dalle risse dei talk show, non si dimentichi la realtà del conflitto. Quelle persone potremmo essere noi, le loro storie sono le nostre.
Nikita ha perso le dita dei piedi, ha perso peso e capelli, forse anche il padre. Si trovava ad Andriivka, un piccolo villaggio di mille anime a ovest di Kiev, quando sono arrivati i russi. Prima della guerra lavorava nell’ospedale della capitale come tecnico di laboratorio, ma i giorni dell’assedio lo hanno rinchiuso in uno scantinato con moglie e figlio di cinque anni. Con loro anche Sasha, il padre – anzi patrigno, ma per loro era uguale. I russi andavano casa per casa, tiravano fuori la gente dalle cantine. Erano arrabbiati per le perdite subite a causa di un vicino contrattacco ucraino. La rappresaglia contro la popolazione, colpevole di sostenere la resistenza, è stata durissima e nessuna casa del paese è stata risparmiata (video). Qualcuno i russi lo ammazzano sul posto, senza cerimonie. Sfondate le porte, trascinano via gli uomini. Finché non è toccato anche a lui e a Sasha: “Ci sono state sparatorie, alcune persone sono state uccise, è stato terrificante”, ha raccontato Nikita.
Una volta in strada, lo hanno bendato e lo portato in un campo insieme ad altra gente – civili, come lui. Una volta al campo, i russi hanno preso una chiave inglese e l’hanno stretta intorno alle dita dei prigionieri, girando, girando, fino a far cigolare l’osso. Lo hanno fatto anche ad altri, Nikita sente le grida. Poi gli tolgono gli stivali, li riempiono d’acqua e – sempre bendato – glieli rimettono ai piedi. E lo gettano a terra. Quando finalmente cade il silenzio, Nikita può chiamare con un filo di voce: “Papà ci sei?”. “Ci sono”.
Per tre o quattro notti sono rimasti così, sotto la pioggia, sdraiati nel fango, con i piedi immersi nell’acqua tanto da smettere di sentirli. Il quarto giorno Nikita si è sentito sollevare di peso, caricare su un camion, poi su un elicottero e infine su un aereo cargo. E gli altri con lui, anche Sasha.
Quando gli hanno tolto la benda, si trovavano in un campo di detenzione. Anche sulle dita di Sasha era passata la chiave inglese, ma peggio, che un dito restava attaccato appena per un sottile lembo di pelle. Al campo gli hanno fasciato i piedi, le dita ormai nere, marce d’acqua e freddo. Dopo avergli rimesso gli stivali, lo hanno caricato su un altro camion. Destinazione Kursk, centro di detenzione preventiva n°1, Russia, inferno.
Ai nuovi detenuti sono stati dati vestiti puliti, hanno tagliati i capelli e gli è stato detto che sarebbero stati “vaccinati”, vale a dire pestati. “Quella prima notte mi sono reso conto che non potevo né sentire né controllare i miei piedi“, ha ricordato Nikita. “E hanno iniziato a emanare un odore terribile.” Altri stavano affrontando la stessa situazione. Alcuni avrebbero poi perso interi arti. Le cure in prigione erano minime: un’iniezione di antibiotico e il cambio delle bende una volta ogni tre giorni.
Le guardie costringevano i prigionieri a imparare canzoni patriottiche russe, da cantare all’ora di pranzo, così da allietare i pasti dei soldati. Durante gli interrogatori venivano regolarmente picchiati.
Dopo tre settimane di prigionia, le condizioni dei piedi di Nikita erano peggiorate drammaticamente e alla fine è stato trasferito nell’ospedale del campo dove un chirurgo gli ha comunicato che gli avrebbero amputato tutte le dita: “A quel punto erano in così cattive condizioni che durante l’esame mi è caduto un dito del piede”. Una settimana dopo l’intervento, un funzionario gli notifica l’ultimo trasferimento: sarebbe stato rimandato a casa in uno scambio di prigionieri.
Ecco perché i rastrellamenti di civili casa per casa, nelle cantine. Per raccogliere uomini da usare come merce di scambio. Una pratica vietata dalla Convenzione di Ginevra, ma confermata dalle autorità ucraine: “I russi catturano ostaggi – civili, donne, dipendenti dei consigli locali – per cercare di usarli”, ha dichiarato la vicepremier Iryna Vereščuk alla BBC. “Sappiamo che lì ci sono più di mille ostaggi, tra cui quasi 500 donne. Sappiamo che si trovano nelle carceri e nei centri di custodia cautelare a Kursk, a Briansk, a Riazan, a Rostov”. Tra loro anche Sasha, che non era nel gruppo dello scambio ed è rimasto nel campo di detenzione.
Quando i russi hanno depositato le barelle in mezzo all’autostrada, e se ne sono andati, Nikita ha capito che era finita, ma un pensiero lo tormentava, quello della sua famiglia. Non sapeva se fosse sopravvissuta. Non sapeva nulla di quello che era successo in Ucraina nell’ultimo mese. Nikita ha dato a un funzionario ucraino il numero di sua moglie Nadia e ha aspettato, il cuore che gli batteva nel petto. Finché Nadia ha risposto. Sono in Belgio, anche il bambino, e sono al sicuro. “Per cinque minuti abbiamo pianto al telefono”, ha detto Nikita. “Abbiamo provato a parlarci ma non ci siamo riusciti”.
Adesso Nikita è ricoverato all’ospedale di Kiev e si sforza di guarire, di imparare a camminare. Ogni passo è un passo verso moglie e figlio. Una volta dimesso, ci sarà un aereo anche per lui – via, lontano, in salvo, verso il Belgio. Questa è la gente che stiamo accogliendo, gente in fuga, che ha visto l’orrore, vissuto la tortura, e non ha voglia di raccontarlo – mentre le nostre televisioni continuano a diffondere le falsità del Cremlino. Nikita ritroverà la sua famiglia, ma ha perso le dita dei piedi, ha perso peso, capelli, forse un padre e chissà cos’altro dentro sé.
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Questo testo è tratto da “A Ukrainian father’s terrifying journey to a Russian prison and back” apparso su BBC World a firma di Joel Gunter che è anche autore delle fotografie, compresa quella utilizzata per illustrare il presente articolo.