Il 22 febbraio scorso il presidente della repubblica di Turchia Recep Tayyip Erdoğan ha anticipatamente interrotto la sua ultima visita diplomatica in Africa, e più precisamente in Senegal, Repubblica Democratica del Congo e Guinea per partecipare al summit NATO sulla crisi ucraina.
Il viaggio segue a breve distanza di tempo il Turkey-Africa Business Summit e il Third Turkey-Africa Diplomatic Summit, tenutisi a Istanbul rispettivamente a ottobre e dicembre 2021, e rappresenta solo la tappa più recente di un intensificarsi delle relazioni diplomatiche fra Turchia e Africa. Dalla sua nomina a primo ministro nel 2003, infatti, Erdoğan ha effettuato 38 visite ufficiali in 28 paesi e dal 2002 ad oggi il numero di ambasciate turche è passato da 12 a 42, a cui si aggiungeranno le nuovi sedi previste in Togo e Guinea-Bissau.
I legami fra Turchia e Africa, tuttavia, non si limitano solamente a visite diplomatiche e riunioni di ministri. Secondo il Ministero Turco degli Affari Esteri, in seguito all’approvazione dell’African Action Plan nel 1998, gli scambi commerciali sono aumentati di 5 volte in poco meno di 20 anni (dai 5,4 miliardi di euro investiti nel 2003 si è passati ai 25,3 miliardi del 2020). La mole di scambi con la sola Africa sub-sahariana è addirittura decuplicata e complessivamente gli investimenti turchi nel continente hanno raggiunto i 70 miliardi. Il 2004 ha sicuramente segnato un punto di svolta per la politica turca nei confronti dell’Africa. In quell’anno, con l’entrata di Cipro nell’Unione Europea, la Turchia ha iniziato a ripensare i suoi piani di integrazione europea e a rivolgere i suoi interessi al di fuori delle sue geografie tradizionali: l’Africa, per l’appunto.
In modo più concreto, tali numeri si traducono in tonnellate di acciaio e manufatti industriali provenienti dalla penisola anatolica e dirette in Africa e materie prime (soprattutto pietre preziose) che viaggiano in direzione opposta per contribuire allo sviluppo dell’emergente economia turca. Ma, soprattutto, si traducono in costruzioni di ferrovie in Etiopia, di piscine olimpioniche, infrastrutture e miniere in Senegal, di moschee in Ghana, di hotel e centri conferenze in Nigeria, in fornitura di energia al Gambia e alla Libia: un’intera parte del continente si sta popolando di cantieri marchiati con la mezzaluna e la stella. Dopo USA e Cina, la Turchia è di fatto il terzo investitore per numero di aziende in partnership con i paesi africani e le agenzie della TIKA (l’ente turco per la cooperazione e lo sviluppo) sono già presenti in 22 paesi.
Non solo infrastrutture, ma anche educazione, cultura e salute
Strade e ferrovie sono solo un aspetto della nuovo presenza turca in Africa. Dopo il tentato golpe del 2016, lo stato turco ha preso accordi con 29 paesi africani per la chiusura delle scuole legate alla rete di Fetullah Gülen (accusato di avere avuto un ruolo attivo nel tentativo di destabilizzazione del paese) e la loro sostituzione con istituti della neonata Fondazione Maarif, che, insieme al Yunus Emre Institut, contribuiscono all’istruzione e alla promozione della cultura turca. Dal 1992, inoltre, sono state fornite borse di studio turche a circa 14000 studenti africani.
Ma non solo: le serie TV “made in Turkey” sono popolarissime in Sudan e Ghana e lo stesso Erdoğan, a dicembre 2021, ha promesso la consegna di 15 milioni di dosi di vaccino contro il COVID. Insomma, la Turchia ha ben compreso che affermare il proprio soft power nel continente è fondamentale ai fini della propria politica estera e che fornire aiuti umanitari è un ottimo modo per farlo. Ne è una prova la Somalia, a cui la Turchia ha prestato aiuto durante la terribile carestia del 2011 e dove oggi Erdoğan viene accolto come un eroe.
La stessa Somalia, visti gli ottimi rapporti fra i due paesi, dal 2017 ospita – oltre che la più grande ambasciata turca sul continente – la più estesa base militare della Repubblica al di fuori della penisola anatolica, utilizzata per l’addestramento di circa 10’000 soldati somali. E un numero crescente di paesi africani si sono già dotati della punta di diamante dell’industria bellica turca: i droni Bayraktar TB2 sono infatti in dotazione delle forze armate marocchine, tunisine e probabilmente anche etiopi, viste le indiscrezioni secondo le quali avrebbero preso parte ai bombardamenti dei ribelli del Tigray. Gli stessi droni Bayraktar sono stati utilizzati a sostegno del Governo Nazionale Libico di al-Serraj già a partire dal 2019, a cui nel 2020 si è fatto seguito l’invio “boots-on-the-ground” da parte della Turchia di truppe regolamentari e di mercenari siriani.
La Turchia “buona” contro l’occidente “cattivo”
Altrettanto impegnata è la comunicazione politica dello stato turco in Africa. In varie occasioni, diversi rappresentanti della Repubblica hanno rimarcato pubblicamente lo status profondamente trans-nazionale dell’identità turca: Davutoğlu, in qualità di ministro degli esteri, ha definito la Turchia come uno stato “afro-euroasiatico”, e lo stesso Erdoğan in Senegal e in Somalia ha rimarcato come il proprio paese e i due stati africani condividano profonde radici storiche e culturali.
Con il continente africano, la Turchia gioca tutte le carte retoriche presenti nel suo mazzo: agli antichi domini ottomani viene ricordata la pacifica convivenza passata sotto la Sublime Porta; nei paesi a maggioranza musulmana, le comuni radici religiose; nell’Africa sub-sahariana, invece, la Turchia, forte di un passato privo di dominazioni coloniali, fa leva sulle rivendicazione anti-occidentali delle vecchie colonie europee. Dalle parole dello stesso Erdoğan si evince la volontà turca di presentarsi come un paese amico e partner dell’Africa, interpretando il ruolo del buon vicino che costruisce strade e ospedali e assegnando all’Occidente quello del cattivo predatore affamato di risorse.
A prescindere da ogni narrazione è evidente come, nella singolarità dei suoi interventi in Africa, la Turchia segua in primis delle logiche di interesse nazionale legate alla volontà di affermarsi come nuovo, potente attore nella scacchiera mondiale. Che tali politiche si traducano in una relazione fraterna con l’intero continente, però, è tutto da verificare.
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