estrema destra ucraina

Estrema destra e nazionalismo in Ucraina, parliamone

Questo è articolo è pubblicato in collaborazione con Osservatorio Balcani e Caucaso

Negli ultimi anni, i gruppi di estrema destra ucraini sono diventati oggetto di attenzione da parte dei media e della comunità internazionale. Lo scoppio della guerra ha riacceso l’interesse delle opinioni pubbliche europee verso la questione del “neonazismo” ucraino, abilmente strumentalizzata dal Cremlino per giustificare l’aggressione militare ai danni di Kiev. La “de-nazificazione” del paese è infatti uno degli obiettivi dichiarati di Vladimir Putin. La propaganda russa ha enfatizzato le tendenze ultranazionalistiche nell’Ucraina post-Maidan, modificandone la percezione, ma il problema è reale. Per questo diventa necessario comprendere l’effettiva natura, la portata e l’influenza dei gruppi di estrema destra ucraini, anche in relazione all’incremento del nazionalismo nel paese.

L’estrema destra tradizionale

La Rivoluzione di Maidan del 2014 ha visto l’emergere di movimenti e partiti di estrema destra. Tra questi Svoboda (Libertà) e il Partito Radicale rappresentano una versione più tradizionale dell’estremismo nazionalista, in linea con analoghe esperienze europee. Svoboda nasce nel 1991 come partito apertamente neonazista ma, dal 2004, assume connotati più moderati pur senza abbandonare posizioni ultranazionaliste su base etnica. Sotto la guida di Oleh Tyahnybok il partito ottiene il 10% dei voti alle elezioni del 2012. Un successo che convince Tyahnybok a proporsi come interprete delle proteste di Maidan senza che però la piazza lo riconosca mai come un interlocutore valido. Alle elezioni presidenziali del 2014, Tyahnybok raccoglie appena l’1,6% mentre il suo partito non raggiunge il quorum per l’ingresso in parlamento.

Il Partito Radicale di Oleh Liashko raccolse il 7,4% alle parlamentari del 2014 riscuotendo la simpatia dei settori nazionalisti con una campagna elettorale populista, al contempo antirussa ed euroscettica. Liashko è una vecchia conoscenza della politica ucraina, in parlamento dal 2006, ha fondato il Partito Radicale nel 2012 candidandosi a essere il principale leader dell’estrema destra ucraina. Alle elezioni parlamentari del 2019 raccolse però solo il 4,1% uscendo dal parlamento. Allo scoppio del conflitto, l’influenza di questi partiti era dunque nulla.

Pravyi sektor e gli altri

Discorso diverso vale per Pravyi sektor (Settore Destro), gruppo guidato da Dmytro Jaroš, emerso durante la fase più acuta della Rivoluzione di Maidan, a seguito della repressione della polizia che uccise, sparando sui manifestanti, oltre cento persone. Il gruppo si rese responsabile di violenze, tra cui la strage di Odessa del 2 maggio 2014, in cui furono uccisi 48 filorussi. Il protagonismo esibito nelle piazze non ebbe però riscontri alle urne. Alle elezioni parlamentari del 2014, il partito si fermò a un misero 1,8% mentre Jaroš, candidato alle presidenziali dello stesso anno, raccolse lo 0,7%. Un segno evidente di come nessuno, in Ucraina, si sia mai sentito rappresentato da Pravyi sektor.

Questa nuova estrema destra, legata a doppio filo con la guerra, ha saputo tuttavia penetrare e sfruttare le molte crepe di un sistema democratico in fieri, condizionato dal conflitto e plagiato dalla presenza degli oligarchi. È il caso di Jaroš che nel 2014 riuscì ad entrare in parlamento, eletto in un distretto di Dnepropetrovsk, città dominata dall’oligarca Ihor Kolomojs’kyj. Il suo nome venne anche proposto per il ruolo di capo della polizia nel governo ad interim che guidò il paese tra febbraio e maggio 2014, ma fu accantonato.

Nel 2015 Dmytro Jaroš lasciò Pravyi sektor per fondare un nuovo partito, Iniziativa politica Jaroš (DIYA) che alle elezioni del 2019 si unì a Svoboda, Pravyi sektor e Natsionalnyi korpus in una lista di estrema destra che non elesse alcun rappresentante in parlamento, collezionando appena il 2,1% delle preferenze. Jaroš perse così il suo seggio in parlamento, che occupava dal 2014. Ma la marginalità dell’estrema destra non è sinonimo di debolezza. Pravyj Sector è infatti all’origine del famigerato Battaglione Azov e, nel 2016, veterani dell’Azov hanno fondato il Natsionalnyi korpus, sotto la guida di Andriy Belitsky, già esponente di Pravyj Sector, decorato al valor militare per il coraggio dimostrato in battaglia durante la guerra nel Donbass.

Questa estrema destra militante e militare ha rappresentato una seria minaccia per la vita politica del paese. Cercando di imporre la propria agenda estremista, si è spesso resa protagonista di intimidazioni e violenze verso oppositori di sinistra, gruppi femministi, attivisti LGBT, minoranze etniche. Personalità come quella di Belitsky e Jaroš sono state tollerate, se non promosse, dalle autorità politiche del paese minando così la credibilità del processo di democratizzazione. Perché?

Tollerare l’estrema destra?

Le premesse a questo stato di cose vanno cercate nei primi mesi dell’Ucraina post-Maidan, quando il governo ad interim – privo di una legittimità elettorale – cercava di portare il paese verso le elezioni navigando a vista tra le acque agitate di una rivoluzione che ancora non aveva esaurito la sua spinta e che rischiava di cadere preda degli estremismi. L’elezione a presidente di Petro Porošenko – le cui parole d’ordine erano “lingua, fede, esercito” – ha alimentato il sentimento nazionalista nel paese, contribuendo al rafforzamento del radicalismo.

Al contempo oligarchi come Rinat Achmetov e Ihor Kolomojs’kyj andavano finanziando, su fronti opposti, la creazione di milizie paramilitari attraverso cui perseguire i propri obiettivi politici ed economici. In particolare Kolomojs’kyj – ebreo con cittadinanza israeliana – promosse la creazione dei famigerati battaglioni ultranazionalisti Azov, Aidar e Dnipro. Kolomojs’kyj è l’oligarca più influente del paese, già governatore di Dnepropetrovsk, ha favorito l’ascesa di molti suoi omologhi, da Julija Tymošenko a Petro Porošenko con il quale è poi entrato in conflitto.

In questo quadro le istituzioni democratiche, tenute in ostaggio dagli oligarchi, non avevano forza sufficiente per arginare le derive radicali. I rapporti tra i movimenti estremisti e gli organi statali sono sempre stati difficili e il tentativo di prendere il controllo su questi gruppi ha scatenato le reazioni degli oligarchi che li proteggevano e alimentavano. In nome della “normalizzazione” personaggi come Belitsky e Jaroš vennero integrati nel sistema e i reparti paramilitari furono assorbiti e persino armati a spese dello Stato.

Nazionalismo etnico e nazionalismo civico

L’Ucraina post-Maidan non ha assistito solo all’emergere dell’estremismo di destra, ma anche allo sviluppo di una società civile democratica. Tuttavia alcune delle scelte politiche operate da Porošenko hanno creato un corto circuito tra il nascente nazionalismo civico e il vecchio nazionalismo etnico, finendo per favorire quest’ultimo.

Un esempio viene dalla legge sulla lingua (n° 5670-d) che toglieva alle lingue minoritarie lo status di lingua regionale limitando drasticamente il loro utilizzo in ambito pubblico. La norma, proposta nel 2017, ci ha messo due anni e duemila emendamenti per essere ratificata, ed è apparsa inutilmente divisiva in un paese dove il 30% della popolazione parla russo. Viceversa nella popolazione andava emergendo un “nazionalismo civico” che non faceva distinzione tra parlanti russo o ucraino, e che vedeva nell’appartenenza nazionale qualcosa che comprendeva le diverse identità culturali. L’elezione a presidente di Volodymyr Zelens’kyj, ebreo russofono, capace di raccogliere consensi a est come a ovest del paese, dimostra una volta di più il carattere civico, e non etnico, del nazionalismo ucraino.

Le politiche di memoria

Un’influenza negativa hanno poi avuto le politiche di memoria promosse dal governo Porošenko che, di fronte alla minaccia russa, promosse il ritorno a simboli e parole d’ordine in precedenza associati esclusivamente a gruppi di estrema destra. La glorificazione dei partigiani nazionalisti ucraini si spinse al punto da coprire i crimini commessi, rimuovendo dalla narrazione pubblica il sacrificio dei partigiani comunisti. Il passato sovietico venne genericamente condannato a essere una pagina oscura della storia nazionale, facendo dell’Holodomor – la carestia artificiale ordita da Stalin – una riprova delle intenzioni genocidarie russe, allora come oggi. Onori pubblici sono stati conferiti a figure controverse del nazionalismo ucraino, tra cui Stepan Bandera, confermando in larga parte dell’opinione pubblica europea l’impressione che gli ucraini si stessero abbandonando a derive fasciste. Impressione largamente enfatizzata dalla propaganda russa, abile nello strumentalizzare la questione. Questa nuova narrativa nazionale, rifiutata da larga parte dell’opinione pubblica, ha però accresciuto il senso di legittimazione dei movimenti estremisti.

Ma non è una questione ideologica

Il nazionalismo ucraino è stato strumentalizzato dalla classe politica e oligarchica del paese per ragioni di consenso o per fini personali. La creazione dei battaglioni ultranazionalisti da parte di Kolomojs’kyj ne è la dimostrazione più evidente. A spingere un ebreo russofono a finanziare un reparto militare neonazista non può essere stata l’ideologia. Così come non è stato il nazionalismo a muoverlo contro gli oligarchi definiti “filorussi”, proprio lui che ha fatto affari milionari con Roman Abramovich, oggi sottoposto a sanzioni per la sua vicinanza al Cremlino.

A motivare la creazione di questi gruppi paramilitari è stata la necessità di rispondere all’analoga formazione di battaglioni “filorussi”, come il Vostok, finanziati da un altro oligarca, Rinat Achmetov, il più ricco del paese fino al 2014, padrone del Donbass, e desideroso di recuperare il terreno perduto dopo la débâcle di Janukovyč e il successo della Rivoluzione.

Prima della guerra, l’influenza dei paramilitari era piuttosto limitata. Il Battaglione Azov, il più noto tra i reparti attivi nel Donbass, protagonista di crimini di guerra tra il 2014 e il 2015, conta circa 3000 volontari che, in proporzione al numero di soldati ucraini sul terreno, stimati oltre le 250.000 unità, rappresentano poco più dell’1% del totale. Attorno al battaglione ruota però una piccola galassia di movimenti radicali, base di reclutamento per volontari da mandare al fronte, i cui sviluppi post-bellici sono difficilmente prevedibili.

Un problema per il futuro

Qualora lo Stato ucraino sopravviva a questa guerra, conservando le proprie istituzioni democratiche e mantenendo la propria sovranità, queste formazioni estremiste potrebbero rappresentare un serio problema. Il prestigio acquisito grazie alle imprese belliche – già sancito in queste settimane dalla nomina di Denis Prokopenko, comandante dell’Azov, a Eroe dell’Ucraina da parte dello stesso Zelens’kyj – dovrà essere ripagato in tempo di pace con incarichi politici e militari oppure, frustrato, potrebbe destabilizzare ulteriormente il paese.

Ma la guerra impone di guardare al presente e il Battaglione Azov fa comodo quando si ha il nemico in casa. La sovraesposizione mediatica fa però il gioco degli estremisti, facendoli apparire più importanti di quello che sono realmente, rubando la scena al popolo in armi, ai volontari, veri eroi dell’Ucraina. Parlare di nazionalismo ed estremismo è certo necessario, il problema è reale e la minaccia concreta. Ma non deve diventare una scusa per giustificare l’aggressione russa o delegittimare la resistenza ucraina.

foto da Wikimedia Commons

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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